Apeiron

Sembra un perfetto matrimonio.
Lei graziosa, sinuosa come una glicine, nel fiore degli anni.
Lui, forte come una quercia, si lascia abbracciare dolcemente, senza protestare. Dovrei prendere in mano le forbici da potare e provvedere al divorzio

Ma non ce l’ho fatta, non ho avuto il cuore di spezzare quell’abbraccio romantico tra la glicine e la quercia: a fermare la mano troncatrice è stato il ricordo dei vecchi innamorati, Filemone e Bauci, cantati da Ovidio nell’ottavo libro delle Metamorfosi.
Avevano ospitato Giove e Mercurio, sotto vesti umane, con tanta sollecitudine che gli fu concesso di esaudire un desiderio.
Chiesero che né lui potesse mai vedere la morte di lei, né lei quella di lui.
Così, quando arrivò la fine del loro tempo, furono contemporaneamente trasformati in due alberi avvinghiati tra loro, una quercia e un tiglio.


Romain de Tirtoff dit ERTÉ (1892-1990) Philémon et Baucis, 1942

Così, quando qualche settimana fa sono sceso dal Burchiello per visitare Villa Pisani, sul Brenta, e mi sono trovato di fronte questa grande scultura in bronzo…


…mi sono detto: ecco un’altra interpretazione del mito greco di Filemone e Bauci.
Tornato a casa, ho cercato notizie sullo scultore e sull’opera, ma niente “Filemone e Bauci”, l’ho trovata sotto il titolo “Apeiron”, opera dello scultore Andrea Roggi.
Un bravo bambino avrebbe subito cercato “Apeiron” su Google per vedere se si trattava di uno spritz o di un mojito, ma io, kattivo e spokkioso, devo far sfoggio della mia cultura classica: quindi sono andato direttamente nella mia biblioteca a cercare Anassimandro sulle “Vite dei Filosofi” di Diogene Laerzio; un vecchio libro che Henry Estiénne diede alle stampe nel 1570, utilizzando i famosi “Grecs du Roy“, rubati da suo padre Robert al re di Francia.


E qui si legge: “Anassimandro, figlio di Prassiade, nato a Mileto. Costui affermava che il principio e l’unico elemento costitutivo del mondo non è l’acqua o l’aria ma l’immutabile apeiron“.


Come si vede, “Apeiron”, secondo il Rocci, può significare inesperto, ignorante o alieno: e non sarebbe difficile concordare con Anassimandro che il mondo – per lo meno quello della Rete – è pieno di inesperti e ignoranti; e gli amanti delle cospirazioni concorderanno pure sul fatto che il mondo è pieno di alieni.
Ma “Apeiron” – dice sempre il Rocci – ha anche un altri significati: “senza fine”,”infinito”, “immenso”, “sterminato”; e questo significato viene generalmente attribuito all’apeiron di Anassimandro.

E credo anche alla scultura di Roggi, con quel globo non-finito e le due figure, come Filemone e Bauci, legate in un abbraccio senza fine, senza un attimo di respiro, per sognare, per potere ricordare ciò che abbiamo già vissuto, senza fine…

Fanciulle scontrose e uomini innamorati

Ci crediate o meno, in una delle scatole da scarpe che risalivano al trasloco della casa – venduta – dei miei genitori, che ispezionavo alla ricerca di vecchie foto ho trovato qualche frammento di vita del nonno di mio nonno (e quindi del mio trisnonno) che portava il pomposo nome di Giovan Battista, Gio Batta per gli amici.

Si tratta della minuta di cinque lettere d’amore inviate dal trisnonno a una fanciulla a cui si era dichiarato e che (almeno a parole) dice di amare profondamente.
Riporto la prima lettera che mi pare scritta in modo leggibile, anche se è evidentemente una malacopia: in ogni caso, cliccando l’apposito tasto sotto la scansione, sarà possibile leggere la trascrizione.
Meno leggibile, anzi decisamente pesante, è lo stile ancora tardo-settecentesco del mio trisnonno: quindi la lettura è consigliata solo a fanciulle romantiche e amanti dei romanzi d’amore del primo ‘800 tipo “Orgoglio e Pregiudizio” o “Le Ultime Lettere di Jacopo Ortis”.
Siamo tra il 1796 e il 1797, in una Romagna appena occupata dai giacobini di Napoleone, ma i pensieri del trisnonno volgono da tutt’altra parte, a riprova che “Tira cchiossà un pilu di fìmmina, ca cientu parigli di vo’ “.

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Questo, tanto per capire il tipo; nei frammenti successivi ci sarà qualche dettaglio chiarificatore di questo Jacopo Ortis mancato (eh già, io non esisterei oggi, se avessi avuto un trisnonno romantico come i personaggi di Foscolo e Goethe che alla fine, respinti dall’amata o dalle circostanze, si tolgono la vita).

Zazzarazzaz

Come dice il cantautore di Asti, “le donne a volte, sì, sono scontrose… o forse han voglia di far la pipì”; non so se fosse per un problema del genere, ma la tipa in questione doveva essere davvero scontrosetta.
Come si potrà dedurre dalla seconda lettera, oltre a frequentare “giovincelli scherzosi”, si era pure permessa di far notare al mio impettito trisnonno ch’egli era “troppo vecchio” per lei, rifiutando le sue avances.
Per la cronaca, essendo il povero Gio. Batta nato nel 1763, al tempo di queste lettere aveva appena gli anni di Cristo…

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Ma per restare in tema di “Orgoglio e Pregiudizio”, il trisnonno sembra proprio un tipo uguale a quel cugino, Mr. Collins, che si prese un bel due di picche da Elizabeth.

Il suddetto Collins ne trovò un’altra dopo pochi giorni; e così dovette fare il trisavolo (ma non dopo pochi giorni), sempre che alla fine la bella ritrosetta non abbia ceduto diventando la mia trisnonna.

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Così si conclude la seconda missiva: citando un “difetto” che si intuisce essere un certo mutismo nella conversazione (anche questo è un tratto di famiglia tramandato nei secoli) e cercando di avere una chiara risposta dalla pulzella; ma essa, cuore di pietra, manco lo degnerà di una risposta.

Il trisnonno Gio. Batta era sicuramente una persona seria; una delle poche notizie storiche al suo riguardo è che nel 1806 (dieci anni dopo queste lettere) era “Presidente della Municipalità” del suo paese; una carica assimilabile a quella di sindaco.
Né era percorso dalla vena di follia (o di impeto sportivo) che aveva indotto suo padre, Orlando (il mio quadrisnonno), a rompersi una gamba cercando di volare con un macchinismo alato da una collina: ma quella era una moda del Secolo dei Lumi, pare.

In ogni caso, come ho detto, la donzella non rispose alla lettera sopra riportata.
E il trisnonno, testardo, dopo due mesi di inutile attesa, prese carta e penna e scrisse questa ulteriore lettera, in cui compare un pericoloso rivale, un “certo giovane” per il quale essa avrebbe una qualche inclinazione; e conclude dicendole che se non gli risponde, la “muta” allora è lei…

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Ahimé, magari gli fosse pervenuta una qualunque risposta: sicuramente ci avrebbe risparmiato la decifrazione – un po’ più difficoltosa – di quanto segue.
Invece, ancora nulla, probabilmente per altri due mesi, fino al 10 ottobre 1796 che è la data posta in calce a questa quarta lettera.
A questo punto il trisnonno è un po’ incazzato: lo si capisce da come scrive questa minuta di lettera, piena di aggiunte e correzioni; la maiuscola del “Voi” quando si rivolge a lei diventa minuscola; i toni si alzano: “Devo pensare che voi mi stimiate un vile e quasi infame dal momento che neppure mi credete degno di una semplice vostra risposta“…

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La “sventurata” non rispose

Ce ne da’ conto la malacopia dell’ultima lettera che l’esasperato avo inviò dopo altri due mesi di inutile attesa di una risposta, nel gennaio del 1797.
Ma nel frattempo, come leggerete, non erano mancate le notizie – da altre fonti – della sua sospirata fanciulla: la perfida gli aveva fatto uno sgarbo che oggi sarebbe equivalente al peggiore dei revenge porn“Vi siete burlata di me leggendo con disprezzo e derisione le mie lettere ad un vostro amante”.
Dopo uno scherzetto del genere cosa fa, invece di fancularla a raffica, quel coglione del mio trisnonno?
Le dice che “non ha mutato parere e conserva egualmente quella stima e buon concetto” che aveva di lei. 

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E qui, con una serie di interrogativi in sospeso a cui cercherò di rispondere, finisce la documentazione disponibile; un dettaglio dell’albero genealogico sarà l’ultimo tassello per valutare il finale di questa storia e cioè se quella fanciulla è poi diventata sua moglie e mia trisnonna oppure no.

E’ un fatto che poi il trisnonno si sposò con una Caterina Dal Monte di Ca’ de Marconi (ci manca il “Vien Dal Basso”, però c’è il “Dal Monte”) in data ignota, purtroppo: perché, se fosse stata abbastanza vicina al 1797 si poteva anche pensare che alla fine la perfida ritrosa avesse ceduto.
Questa è la parte di albero genealogico che ci riguarda:

Partendo da sinistra in alto, dal nostro Giambattista, si dirama l’elenco dei figli che la Caterina gli generò: il primo da destra, Domenico, è del febbraio 1806; il che porterebbe una ipotetica data di matrimonio al 1804 o 1805;
Quindi le domande conclusive per stabilire se la fanciulla in questione è la trisnonna sono:

  • l’età di Caterina (che morirà nel 1850 e di cui non sappiamo la data di nascita) potrebbe essere compatibile con quella della ritrosetta?
  • perché si sarebbero conservate in famiglia quelle minute, se la cosa era finita lì, ingloriosamente, col rischio che finissero in mano della Caterina?

Ricapitoliamo l’ipotesi “trisnonna ritrosetta”:

1) La “fanciulla ritrosa” dovrebbe essere nata non oltre il 1779; all’epoca delle lettere avrebbe quindi 16/17 anni, già da marito ma abbastanza stupidina da comportarsi in modo così frivolo e maleducato: un uomo che ha quasi il doppio della sua età gli può ben sembrare vecchio (anche se i 10-12 anni di differenza allora erano più che normali)
2) convinta dai genitori, dal 1798 avrebbe dovuto rispondere e riallacciare i contatti col tenace trisnonno (ma non ci sono documenti che lo confermano)
3) dopo un paio di anni di ulteriore corteggiamento siamo nel 1800, il trisnonno è diventato sindaco, il che può aver avuto il suo peso, si sarebbe andati al fidanzamento, nel 1801
4) mettiamoci pure un anno o due di trattative per la dote e siamo nel 1803
5) si fissano le nozze per il 1804, si sposano e nel 1805 rimane incinta di Domenico, che darà alla luce nel 1806
6) Fa un figlio ogni 2 anni circa, nel 1813 tocca a mio bisnonno, e nel 1823 ha l’ultimo figlio, un altro Domenico.

A me pare un’ipotesi con un po’ di problemi: gli anni tra il 1797 e il 1805 sono un po’ tanti per un fidanzamento di quei tempi; e i 45 anni che lei avrebbe avuto quando ha fatto l’ultimo figlio mi sembra un’età un po’ troppo avanzata, anche se non impossibile.
Sembrerebbe quindi più probabile che la trisnonna Caterina Dal Monte di Ca’ de’ Marconi fosse un’altra fanciulla, forse sui 18 anni nel 1804/05 e che quindi avrebbe fatto l’ultimo figlio a 37 anni, anziché a 45.
E chissà che non fosse proprio la sorellina piccola della “fanciulla ritrosa” rimasta zitella: in effetti, chi se la piglierebbe una così stronza? e poi il trisnonno mandava sempre i saluti anche alla sorella, nelle sue lettere…

Cani e pistoleri #2

A seguito di un approfondimento gugglesco, devo confessare che ho toppato alla grande sia sul soggetto che sul quadro dei cagnetti tanto spernacchiato in Cani e pistoleri: invece di essere una stereotipata vecchia crosta, sia il quadro sia il suo soggetto sono un distillato della più pura nobiltà britannica, artistica e letteraria.
Ma andiamo per ordine.

Il soggetto

Anzitutto va detto che la razza Cavalier spaniel dei due cagnetti, un Cavalier King Charles Spaniel e un Cavalier Blenheim bianco, è presente fin dal Rinascimento nelle opere di pittori come Bronzino, Tiziano, Van Dyck e Gainsborough e divenne famosa – prendendone il nome – per la passione che vi portò il re Carlo II d’Inghilterra.


Ritratto di Maria Salviati, Agnolo Bronzino, circa 1526


Ritratto di Clarissa Strozzi, Tiziano, 1542


Il piccolo futuro Carlo II con le sorelline e i cagnolini ritratto da Van Dyck nel 1635

A lungo la King Charles spaniel è stata l’unica razza di cani ammessa alla Corte d’Inghilterra.
Intorno al 1800, la varietà dal muso corto e schiacciato aveva preso il sopravvento in popolarità sostituendo lo spaniel originale (quello del quadro) di cui solo i Duchi di Marlborough mantennero in vita una linea di sangue, allevandoli nel loro castello che prese il nome di Blenheim a seguito della battaglia del 1704 in cui John Churchill, I duca di Marlborough, sconfisse la Francia del Re Sole nella Guerra di successione spagnola.
I Cavaliers che hanno ricchi segni castani su uno sfondo bianco perlato sono quindi conosciuti come Blenheim. In alcuni cani (tra cui la femminuccia del nostro quadro) è presente una macchia castana al centro della fronte: questa è detta la “macchia blenheim” o “pollice della Duchessa”, basato sulla leggenda secondo cui Sarah Churchill, duchessa di Marlborough, mentre attendeva notizie del ritorno sano e salvo di suo marito dalla battaglia di Blenheim, premette con il pollice la testa di una cagnolina incinta che poi, dopo la notizia che la battaglia era stata vinta diede alla luce cinque cuccioli che portavano quel segno fortunato.

Dash, l’amatissimo King Charles Spaniel della Regina Vittoria, meritò una tomba con monumento ed epitaffio, come si legge sulla voce di Wikipedia a lui dedicata.


Dash, a sinistra, nel dipinto di Sir Edwin Henry Landseer, 1838

Da un incrocio di uno spaniel Blenheim derivano anche i cocker spaniel, come Flush, il cane di Elizabeth Barrett-Browning, la cui biografia è un capolavoro letterario di Virginia Woolf.

E con questo, direi che la nobiltà del soggetto del quadro è dimostrata in modo inoppugnabile.

Il quadro

Ma c’è qualcosa da aggiungere anche alla nobiltà della composizione pittorica e del quadro che ho ingiustamente classificato come ignobile crosta da saloon di Tucson o Abilene.
Si tratta in effetti di un quadro famoso (o meglio della copia di un quadro famoso) dal titolo “The Cavalier’s Pets” dipinto nel 1845 da quello stesso Sir Edwin Henry Landseer che aveva ritratto il Dash della Regina Vittoria e scolpito i leoni di Trafalgar Square (mica pizza e fichi…) e che qui ritrae i cani del mecenate Robert Vernon.
Nel 1845 il quadro fu esposto alla Tate Gallery (dove si trova tuttora) e fu quindi oggetto di innumerevoli copie, tra cui quella che mi è finita in casa.


Sir Edwin Henry Landseer, King Charles Spaniels (‘The Cavalier’s Pets’) 1845, exhibited 1845

In conclusione, maltrattando e deridendo pubblicamente il quadro e i nobilissimi cagnetti, la figura del cane, o del pistola, l’ho fatta io…

Cani e pistoleri

Oltre ai dipinti che hanno come soggetto i clown, anche quelli che ritraggono cani o gatti godono assai poco delle mie simpatie.
Specie se si tratta di leziosi cagnolini da compagnia, insopportabili dal vero quanto in effigie.
Ma a dimostrazione del noto adagio, l’acqua che non vuoi bere è quella che ti annega, sono in possesso – per via ereditaria – proprio di un dipinto raffigurante una coppia di malefici cagnetti, di razza Cavalier’s Pets, a occhio dei cocker nani – per di più agghindati con nastrino colorato al collo, blu per il maschietto e rosa per la femminuccia;

Comunque, giammai mi sarei permesso di tediare il pubblico pagante di questo oscuro blog al riguardo se non fosse che il verso del dipinto è un po’ più interessante del recto, grazie a iscrizioni più o meno criptiche e una serie di restauri che hanno destato la mia attenzione e – spero – anche la vostra.

Apparentemente si tratta di un restauro da cani, quindi perfettamente in tema col soggetto: come si vede, il dipinto reca numerose pezze al culo, con rispetto parlando, rudemente applicate senza risparmio di colla.
“Pezo el tacòn del buso” direbbero i veneziani, ma nonostante il tacòn, il buso è piuttosto interessante: analizzando il restauro anche dall’altra parte si evince chiaramente che si tratta di pezze messe per rattoppare fori perfettamente circolari.

Né si tratta di fori circolari qualsiasi: una accurata misurazione forensica, dopo aver evidenziato la zona restaurata sul fronte del dipinto, ha permesso di stimarne il diametro in circa 1,14 cm, cosa che induce a ritenere che si tratti di fori dovuti alla perforazione da parte di un proiettile Colt .45″.
Che i rudi pistoleri del Far West, oltre al pianista strimpellatore del saloon, non apprezzassero i cagnolini agghindati non è una sorpresa, tuttavia non è possibile attribuire i fori del quadro a Kit Carson o Buffalo Bill che essendo provetti tiratori avrebbero sicuramente centrato le innocenti bestiole in piena fronte; mentre i buchi restano alle estremità del dipinto, risparmiando i cagnolini.
Da qui ne verrebbe l’attribuzione, difficilmente contestabile per via di 4 pesanti indizi, a Calamity Jane:

  1. Il dipinto reca la data del 1863 ed è perfettamente compatibile con il periodo di attività della pistolera, attiva dagli anni ’70 del XIX secolo
  2. i proiettili Colt .45″ sono in produzione dai primi anni ’70 dell’800, quindi anch’essi compatibili con la data del dipinto e la cartuccera di Calamity.
  3. Come i suoi colleghi pistoleri, anche Calamity Jane alla vista del quadro avrebbe certamente portato la mano alla pistola e fatta giustizia sommaria.
  4. ma, in quanto donna e di sentimenti più teneri delle suddette vecchie pellacce, ha sparato al dipinto risparmiando i cagnolini.

Ora si tratterebbe di trovare qualche altra conferma nell’analisi delle iscrizioni al verso; eccone qua un ingrandimento per gli esperti decrittatori:


in cui leggo con qualche sicurezza solo il titolo (The Cavalier’s Pets), l’anno (1863) e il cognome dell’autore, Mitchell.
Il nome è stato forse perforato dalla calibro. 45″, a meno che non si legga una “P” legata alla “M” di Mitchell che potrebbe riferirsi al prolifico gallese Philip Mitchell (Devonport, 1814 — Plymouth, 1896) con l’età giusta per dipingerlo nel 1863; sfortunatamente però, sarebbe un artista dalle quotazioni piuttosto basse.
Che mi convenga allora appenderlo alla rovescia e spacciarlo per un quadro della pistolera spazialista Calamity Jane, precorritrice d’un secolo delle perforazioni di Lucio Fontana?

007 gradi di separazione

Cose che succedono solo perché c’è internet, state un po’ a sentire.

Pesco dalla libreria un vecchio libro di Ian Fleming, per vedere se James Bond resiste agli anni sulla carta come al cinema.

Diciamo subito che si difende bene, nonostante i suoi 70 anni: l’incipit è fulminante e cinematografico, manca solo di sentire in sottofondo il tema musicale di Monty Norman.
Ma la colonna sonora, in realtà, non manca: l’introduzione della seminuda protagonista, Tiffany Case, è dettagliatamente scandita dalla altrettanto dettagliata descrizione del disco che sta suonando in quel momento.
Il suono malinconico di un pianoforte udito prima di bussare, “Les feuilles mortes“, poi “La Ronde” appena entrato.
Bond riconosce il pianista, George Feyer, un ungherese sfuggito alla morte dal campo di sterminio di Bergen-Belsen e passato da Liszt alla musica leggera.
Godetevi la musica. E’ il miglior disco di musica leggera che esista“, gli dice la discinta ragazza che poi spezzerà il cuore di Bond rifiutandosi di sposarlo.
Il disco sta suonando “J’attendrai’, ultimo brano della prima facciata.
Bond prende nota del numero, VOX 500 e se lo imprime nella memoria, poi lo gira sul lato B.
Saltando il primo brano, La Vie en rose, troppi ricordi, appoggia la puntina del giradischi su Avril en Portugal, pensando a quanto si addiceva quella musica alla ragazza.

A questo punto, passati da Bond (grado di separazione 001) ai gusti musicali Tiffany Case (002), gugglando “George Feyer” non è difficile identificare il disco descritto da James Bond: è “Echoes of Paris”, grande successo del 1953 del pianista George Feyer ed effettivamente registrato col codice VOX 500.

E qui, al terzo grado di separazione, la prima sorpresa: quel disco ce l’ho!
La variopinta copertina mi ritorna in mente insieme agli arpeggi di pianoforte della mamma, sfoglio la pila dei vecchi vinili ereditati dagli anni ’50 della sua giovinezza ed eccolo qui, una specie di extended play del 1953:

Mentre il disco ruota dolcemente sul piatto, senza nemmeno troppi fruscii, mi leggo la lista delle canzoni e, oltre a quelle citate nel libro, ne noto una intitolata a un nome di donna, Valentine, che non può che far pensare al personaggio dei fumetti, disegnato da Guido Crepax basandosi un po’ sulla moglie – che si chiamava Luisa – ma soprattutto su Louise Brooks.

Valentine è un successo di Maurice Chevalier che risale a un secolo fa e Google ne conferma l’associazione con la diva del cinema Louise Brooks grazie ad un’altra canzone di Chevalier, intitolata appunto “Louise”.

e a una cartolina che li raffigura insieme (anche se lei non sembrerebbe essere davvero la Brooks)

Wonderful! Oh, it’s wonderful
To be in love with you.
Beautiful! You’re so beautiful,
You haunt me all day through
.”
In ogni caso questo successo del 1929 potrebbe benissimo essere dedicato alla carismatica diva del cinema degli anni ’20.

Riepilogando dunque, da Bond a Tiffany Case, il disco di Feyer, la canzone di Chevalier, Louise Brooks, Valentina e quindi Crepax, al numero 007 dei gradi di separazione.
Ma il bello è la sorpresa finale.
Di chi sarà mai la mano che con tratto moderno e accattivante ha illustrato la copertina del disco di Georges Feyer, nell’edizione italiana del 1953?
Fortunatamente c’è la firma, sotto al seggiolino del pianista:

Le labbra sottili si schiusero e Goldfinger disse: – C’è un detto a Chicago, Mr Bond, che dice: “La prima volta è un caso, la seconda è una coincidenza, la terza è premeditazione! –

Come non essere d’accordo con Mr Goldfinger? Quando Crepax sceglie Valentina come nome da dare alla protagonista del suo fumetto, ricalcato sui tratti fisici di Louise Brooks, sarà un caso, una coincidenza o sarà perché gli ritorna in mente, bello più che mai, “il miglior disco di musica leggera che esista” di cui ha disegnato la cover qualche anno prima?

L’innamorata del Sole

“Ninetta mia, a crepare di maggio
Ci vuole tanto, troppo coraggio”

(La Guerra di Piero, Fabrizio De André)

Svolazza fuori da un vecchio e polveroso tomo questo piccolo e strano opuscolo di Luigi Muzzi: “L’Innamorata del Sole”:

La stranezza, a parte il romantico titolo che evoca bionde trecce, occhi azzurri e calzette rosse, sta nel contenuto: numerate, dall’1 al 24, contiene solo “iscrizioni” in stile lapide cimiteriale, dedicate alla triste storia di Ninetta Delille, l’Innamorata del Sole.

Una breve introduzione racconta la triste storia di Ninetta che vi riassumo brevemente.
Ninetta Delille, bellissima figlia di una aristocratica famiglia di Parigi, era ricoverata nell’Ospizio di Montmarte sotto le cure del celebre dottor Blanche dalla primavera del 1823, per una innocua forma di follia che la vedeva innamorata del Sole, unico oggetto delle sue attenzioni e non faceva altro che fissarlo estatica da mattina a sera.
Il 17 luglio del 1833 si consumò la tragedia di Ninetta: quando il sole si oscurò a causa di un eclissi totale di sole, “inquieta dove esso fosse andato e incerta se sarebbe tornato, lo chiamava… ah… infelice! con infuocati sospiri di gelosia e pietosa disperazione. Mancava un istante a vederlo ricomparire, ricomparve… ma Ninetta era morta.”

Un vero concentrato di retorica classica e romanticismo sepolcrale: passando sopra a quel “quore” che spero sia stato un errore di stampa, ho approfondito un po’, gugglando; e pare che l’autore, Luigi Muzzi, fosse il più stimato letterato italiano nel campo delle “iscrizioni” (che evidentemente era un genere letterario assai in voga); se la giocava addirittura con Pietro Giordani, il grande amico di Leopardi, anch’esso gran produttore di quel tipo di “iscrizioni”.
E’ comunque un genere letterario morto ormai da tempo; l’ultimo epigono – ma di gran successo – fu Edgar Lee Masters con la sua Antologia di Spoon River, portata poi in musica con altrettanto successo da Fabrizio De André, che ho citato in apertura per via della Ninetta che compare in una sua famosa canzone; la Ninetta Delille, però, non è evidentemente crepata di maggio, visto che l’eclissi del 1833 è astronomicamente avvenuta in luglio: ma poco male, la citazione non ci azzeccava lo stesso perché chi crepava in maggio era Piero, non Ninetta.

Questioni di quore

Giovinezza ventenne
Soleggiante chioma
pupilla sorriso
involatore de’ quori

Non è, come credevo, un errore di stampa: come avrà notato il lettore attento, il Muzzi scrive cuore con la “q” almeno un paio di volte.
Un ignorante illetterato? A leggere le note biografiche della sua avventurosa vita nella Treccani non si direbbe, visto che insegnò Lettere all’Università, fu accademico d’Italia e socio corrispondente della Crusca, litigava con Vincenzo Monti ed era apprezzato dal Foscolo (“Nel 1808 fu nominato pubblico ripetitore di eloquenza italiana e latina all’Università occupando il posto che era stato di Pietro Giordani; in seguito per un breve periodo fu professore di belle lettere. Nel 1809 entrò a far parte dell’Accademia italiana. Nel 1824 divenne socio corrispondente dell’Accademia della Crusca”).
In realtà – sempre gugglando – ho scoperto che era un rigoroso “purista” e applicava le regole ortografiche alla lettera, senza eccezioni; e la questione di quore ne è il caso più singolare.
Il Muzzi sosteneva infatti che la regola ortografica impone che si usi sempre il “q” davanti a un qualsiasi dittongo (“questo, qui, quando, quota”) e si usi sempre la “c” se segue solo una singola vocale; quindi come sarebbe sbagliato scrivere “cuesto” invece di “questo” così è sbagliato scrivere “cuore” invece di “quore”; e ovviamente anche “scuola” andrebbe scritto “squola” alla faccia delle maestre delle elementari che se scrivevi squola ti mandavano di corsa in castigo dietro la lavagna.

Devo però ammettere, sia pure a malinquore, che questo innoquo vezzo ortografico mi perquote malamente l’orecchio spezzandomi il quore: insomma, fa un po’ evaquare…

Le innamorate del Sole

“Nec se movit humo; tantum spectabat euntis
Ora Dei: vultusque suos flectebat ad illum”
(Metam. IV, 264-265)

(“E non si mosse più da quel punto; guardava soltanto
il Sole, volgendo il suo volto per seguirlo nel cielo
“)

Fosse nata nell’era mitologica del mondo Greco-latino, la triste fine di Ninetta Delille sarebbe forse stata cantata da un poeta un po’ migliore del pur volonteroso Muzzi.
Io scommetterei su Ovidio, che le avrebbe sicuramente dedicato una delle sue metamorfosi, come ha fatto con Clizia e Leucotoe, le due innamorate del Sole.
La storia è ancor più tragica di quella di Ninetta: Clizia era una ninfa innamorata di Apollo, il dio del Sole: quando si accorse che il dio invece se la faceva con Leucòtoe, figlia di Orcamo re degli Achemenidi, pazza di gelosia rivelò al padre di Leucotoe la tresca di sua figlia col dio.
Allora i padri non andavano tanto per il sottile e Orcamo, nomen omen, fece seppellire viva sua figlia, per punirla. Apollo, persa l’amata Leucòtoe, ovviamente non volle più saperne di Clizia (potremmo quasi dire che si eclissò…) e Clizia cominciò a deperire, rifiutando di nutrirsi, bevendo solo le sue lacrime seduta a terra a fissare l’amato dio che conduceva il carro del Sole in cielo senza rivolgerle neppure uno sguardo, finché, consumata dall’amore, si trasformò in una eliotropia, cioè un girasole.

Ma la povera Ninetta Delille non ebbe nemmeno un resoconto psichiatrico della sua follia: il medico francese Esprit-Sylvestre Blanche (1796-1857), che la ebbe in cura, nei suoi “Fragments psycologiques sur la folie” del 1834 non la cita affatto; ma si tratta di un testo dedicato al contrasto dei metodi di rigore corporale e delle coercizioni fisiche e psicologiche che stavano ritornando in auge dopo la parentesi rivoluzionaria.

Tutto quello che ci resta di Ninetta sono le 24 iscrizioni di Muzzi e il poema “L’Eliofila” di Antonio Mezzanotte (cognome quanto mai inadatto al soggetto!): costui, amico del Muzzi, riprende le 24 iscrizioni e le commenta con sue poesie altrettanto sepolcrali ma, ahimé, non certo all’altezza di Ovidio; e nemmeno si avvicinano alle due “Canzoni sepolcrali” scritte in quegli anni da Giacomo Leopardi (Sopra un basso rilievo antico sepolcrale e Sopra il ritratto di una bella donna ), non certo la miglior produzione del poeta di Recanati.
L’unica cosa che possiamo salvare è la bella litografia che compare nell’antiporta del libretto di Mezzanotte:

Sulle tracce del dottor Blanche

Nel 1821, il dottor Esprit-Sylvestre Blanche fondò una casa di cura, un tipo di ospedale per alienati completamente nuovo, fondato sul modello di una pensione, ospitandoli cioè a casa sua. A Montmartre e poi a Passy, ​​i pazienti condivisero la vita quotidiana del medico, di sua moglie e dei suoi figli, cenando alla loro tavola e passeggiando nel loro grande parco di cinque ettari.
La casa del dottor Blanche, gestita prima da Esprit-Sylvestre e poi da suo figlio Emile, divenne una delle istituzioni più famose d’Europa, rifugio della generazione romantica, ospitando pazienti assai famosi: ma dopo la morte di Emile si perse completamente la memoria di questa famiglia di “Basaglia” ante litteram.

La cattiva notizia per gli investigatori dell’Innamorata del Sole, è che solo nel 1838 usci una legge in Francia che imponeva la tenuta e la conservazione di un registro contenente lo stato civile dei pazienti, le date del loro soggiorno, la descrizione dei loro disturbi e la diagnosi commentata dal medico; e la produzione a stampa di Esprit-Sylvestre Blanche è estremamente ridotta e del tutto incompleta riguardo ai casi clinici.

La buona notizia invece è che il 4 gennaio 1977, Georges Mévil-Blanche, ultimo erede della famiglia Blanche, lasciò in eredità le carte personali della sua famiglia alla biblioteca dell‘Institut de France per costituire un fondo aperto alla consultazione dei ricercatori: migliaia di lettere scambiate tra medici e loro parenti, amici o pazienti. Questa inestimabile corrispondenza, anch’essa del tutto inedita, permette di seguire quasi di giorno in giorno la vita di una casa di cura che ha accolto, a vario titolo, i più grandi personaggi del suo tempo:

  • Alfred de Vigny, Hector Berlioz, Eugène Delacroix, Alexandre Dumas padre, Théophile Gautier, Édouard Manet, Auguste Renoir, Edgar Degas, come amici e visitatori;
  • Charles Gounod, Marie d’Agoult (che dalla sua relazione con Liszt ebbe tre figli tra cui Cosima, futura moglie di Wagner), Marie de Flavigny, la contessa di Castiglione (celebre amante di Napoleone III), la famiglia del compositore Halévy, Théo Van Gogh, il fratello di Vincent, tra i ricoverati per qualche tempo;
  • Gérard de Nerval e Guy de Maupassant tra i pazienti incurabili;
  • Jules Verne e Ernest Renan, come padri preoccupati per la sanità mentale dei loro figli e l’avvocato Jules Grévy per quella di sua sorella;

Non potendomi al momento recare all’Institut de France per avere in visione i carteggi della famiglia Blanche (:D), non mi è restato che sfruttare il lavoro di una ricercatrice, Laure Murat, che si è dedicata a quel lavoro, dando alle stampe un libro dall’eloquente titolo “La Casa del Dottor Blanche: storia di un ospizio e dei suoi pazienti, da Nerval a Maupassant”.

Sfortunatamente, il documentatissimo tomo di Laure Murat non fa alcun cenno di Ninette Delille.
Anche una accurata ricerca sui giornali francesi del 1833 (tutti digitalizzati integralmente su Gallica, https://gallica.bnf.fr/services/engine/search/advancedSearch/) non porta alcun risultato utile: lo stesso dottor Esprit-Sylvestre Blanche compare solo in un paio di articoli, senza alcuna attinenza con Ninette e l’eclissi di luglio è citata solo per l’aspetto astronomico.
Arrivati dunque ad un punto morto dell’indagine, non mi è restato che applicare il sistema usato dal detective Hieronymus (Harry) Bosch, quando una pista promettente non sfocia in nulla: ricominciare ad esaminare tutta la documentazione dall’inizio ed esplorare tutte le ipotesi alternative.

Nel nostro caso, l’inizio è la prima pubblicazione della “Iscrizione” del Muzzi: avvenne nel 1839, su una strenna pubblicata da Vallardi col titolo “Non ti scordar di me”.

La strenna è stata fortunatamente digitalizzata integralmente da San Google, il che ci permette di disporre della prima immagine dell’innamorata del Sole

e soprattutto della presentazione originale del Muzzi alle sue funebri iscrizioni per Ninetta:

Oltre che quel “piaqque” su cui sorvoliamo, ormai conoscendo il nostro Muzzi, ai fini della nostra indagine risulta assai importante quell’incipit “Sono incirca sett’anni, che morì a Parigi […]”.
O il Muzzi maltrattava l’aritmetica come maltrattava l’ortografia (1839 – 1833 = incirca 7?) oppure siamo alla fine del 1839 e gli anni vengono arrotondati da sei e mezzo a circa sette.
Cosa confermata dal fatto che si tratta di una “strenna pel Capo d’anno” e, uscita nel 1839, non può che riferirsi al capodanno 1840.

Ma licenza poetica o aritmetica che sia, quello che resta comunque stabilito è che
questa è davvero la prima comparsa di Ninetta su stampa: in ristampe successive, si trova sempre citata questa strenna come la prima comparsa di Ninetta. Muzzi ha composto le sue iscrizioni quasi sette anni dopo l’eclissi del 1833. Perché?

Eliminato l’impossibile, ciò che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità.
(Arthur Conan Doyle, Il segno dei quattro)

Non è poi tanto improbabile, per quanto clamorosa, la conclusione a cui sono arrivato: Ninetta Delille non è mai esistita. E’ una fake news ante-litteram creata dal Muzzi per dare un tocco di realismo alle sue macabre iscrizioni.
Il nome, Nina, come compare nella didascalia dell’illustrazione sulla strenna di Vallardi, lo ha scelto probabilmente ispirato dall’opera di Paisiello “Nina, o sia la Pazza per Amore” o dall’omonimo balletto francese “Nina ou la folle par amour”, ancora rappresentato con successo durante la prima parte dell’800. Nina e follia, accoppiata vincente.

Quanto al cognome, Delille, può averlo ben preso dal poeta francese Jacques Delille – il maggior poeta del ‘700 francese insieme a Voltaire – la cui gloria non s’era certo spenta dopo la morte avvenuta nel 1813, specie fra i letterati del primo ‘800 come Muzzi.
Solo così si spiega infatti la totale assenza del nome di Ninette Delille nei giornali francesi e nel libro di Laure Murat: si tratta di un tocco di esotismo esterofilo del Muzzi, un pizzico di sale per insaporire la sua creazione.

Ma prima che lo sgomento per la repentina scomparsa di Ninette provochi un moto di delusione nei cuori delle fanciulle romantiche che leggono queste righe, ecco la buona notizia: Ninette Delille non è mai stata celebrata dai giornali francesi ma l’innamorata del sole, invece, sì.
Per presentarla come si merita, devo introdurre il vero protagonista delle pagine dei giornali francesi del XIX secolo: il feuilleton.
Il feuilleton, come è noto, era la parte di un giornale che ospitava, accanto a rubriche diverse, romanzi a puntate, detti anche romanzi d’appendice.

Eccone un esempio tratto dal Journal du Cher del 12 marzo 1835: la parte sotto la riga nera, che la stacca dalle notizie politiche, è appunto intitolata “Feuilleton” e contiene un racconto letterario.

L’occhio acuto e interessato alle vicende dell’Innamorata del Sole avrà sicuramente notato l’accattivante titolo del “feuilleton”: “L’épouse du Soleil -Une histoire veridique” ovvero “La Sposa del Sole – Una storia vera”.
E per evitare che la curiosità uccida il gatto e ci si cavino gli occhi per decifrare i minuscoli caratteri sotto al titolo, vado a favorire un decente ingrandimento:

Come un vero “cold case” della sezione “Casi Irrisolti”, è una coincidenza, quasi trent’anni dopo il misfatto, a consentirci di identificare il DNA del colpevole e la sua identità.

Il Giornale degli Eruditi e dei Curiosi funzionava così: i “curiosi” facevano domande di qualsiasi genere e gli “eruditi” (o che si ritenevano tali) provavano a dare la risposta.
Nel numero di novembre del 1884, un “curioso” anonimo veneziano – già sento in sottofondo i melanconici archi dell’Adagio di Benedetto Marcello – fa la fatidica domanda delle cento pistole: “sarebbe mai avvenuto che taluno, preso da esaltazione mentale, siasi innamorato del sole?

Riceve più di una risposta, tra cui quella che lo rimanda alle “Iscrizioni” di Luigi Muzzi e a Ninetta Delille.
Ma tra le risposte compare anche quella di un “erudito” che aveva incrociato altrove l’innamorata del sole:

il traduttore franco-russo Eugène Wenceslas Foulques ricordava bene la cosa, avendo appena curato la versione italiana di una novella francese di Jules Janin che narrava una storia simile. Eccone l’incipit in cui si riconoscerà facilmente il “feuilleton” del 1835, l’épouse du soleil, che chiude il mio precedente post.

L’indagine converge dunque su Jules Gabriel Janin (Saint-Étienne, 16 febbraio 1804 – Parigi, 19 giugno 1874), scrittore e drammaturgo francese, esponente di spicco del Romanticismo francese: ma ci riporta assai indietro nel tempo, nel 1828, cinque anni prima della presunta morte di Ninette Delille e dell’eclissi del 17 luglio 1833. Ma soprattutto ci trasferisce dal regno della realtà a quello della fantasia letteraria…

Jules Janin, dunque, immagina la storia dell’innamorata del sole nel 1828; esce come novella su “Le Figaro” (in cui lavorava come giornalista in quegli anni) col titolo “L’Eclipse”; viene successivamente ristampata sul feuilleton del “Journal du Cher” nel 1835, con un titolo più click-baiting “La sposa del sole – Una storia vera”. La stessa novella, intitolata “La Folle”, uscirà nel 1838 in una raccolta di racconti di Jules Janin, “Les Catacombes”, lugubre titolo che certamente non può non aver attirato l’attenzione di un incisore di lapidi funerarie come Muzzi.
Muzzi lo legge, si innamora della storia della pazza del sole e immagina le iscrizioni funebri per la povera protagonista.
Ma non si scrivono lapidi funebri per personaggi immaginari, serve una data, serve un nome e dalla novella di Janin ricava solo un generico “sono passati tre anni da quando…”.
L’eclissi! Muzzi sfoglia le effemeridi di quegli anni e colloca la data di morte della povera pazza a cinque anni prima, nel luglio del 1833.
Non manca che il nome: “Nina la pazza per amore” e il poeta Jacques Delille glielo forniscono; il pittore Antonio Muzzi ne fa un ritratto di fantasia per illustrare l’opera.
Così Muzzi, non appena creata Ninetta Delille, può finalmente seppellirla!

Jules Janin, quando scrisse l’Eclipse, abitava a Montmartre come tanti artisti bohemienne dell’epoca. Non lontano dalla clinica del dottor Blanche, che cita appunto nella sua novella.
Se non certamente Ninetta Delille e l’eclissi del 1833, non si può dunque escludere che ci sia un fatto vero, forse un’altra eclissi e un altro nome e cognome dietro l’ispirazione di Janin; anzi un indizio lo avrei anche trovato… ma prima, leggiamo insieme la novella di Janin:

L’Eclissi (Jules Janin, 1828)

Tre anni fa, a Montmartre, nella Maison del Dottor Blanche, l’instancabile specialista degli alienati mentali, che cura i suoi pazienti colle buone maniere, col benessere e la libertà, invece che, come gli altri, con la segregazione, le docce fredde e la miseria, c’era era una donna la cui follia era singolare e commovente.
Questa donna, ancora giovane e il cui viso era dolce ed il sorriso pieno d’incanto, non aveva altra follia che questa: credeva di essere la promessa sposa del sole; si erano fidanzati lei e lui, cioè il sole, in una bella giornata d’autunno, quando il sole aveva coperto il suo splendente volto con un meraviglioso velo di nubi, per non abbagliare la sua amata.
Da allora, ella era sua come egli era suo; aveva sentito sulla mano l’ardente bacio del suo sposo, ed ora non viveva più che per lui solo.
Il sole era la gioia, la gloria ed il trionfo di quella povera ragazza.
Lei si svegliava nello stesso istante in cui il suo amore gettava i primi raggi nel cielo; teneva gli occhi fissi sullo sposo che si alzava e lo salutava con lo sguardo, come gli uccelli lo salutano coi loro canti, come il fiume lo saluta col suo mormorio, come la rosa lo saluta col suo profumo.
Quanto più bella era la natura allo spuntar del sole, quanto più sereno il cielo, quanto più gioioso l’intero creato, tanto più felice era la povera pazza.
Non era forse il suo divino sposo che gettava dappertutto la luce e il calore? non era egli forse il re del mondo? non aveva essa forse passata una notte intera, una notte d’amore, fra le sue braccia?
Cosi, in un’estasi perpetua e divina, seguiva ogni passo del sole; rincorreva il più piccolo suo raggio; più il sole saliva nel cielo e più aumentava il suo poetico entusiasmo.
A stento si poteva riuscire a farle mangiare qualcosa ogni giorno, tanto era posseduta dalla sua celeste passione; e ancora, per farla mangiare, bisognava dirle che il suo divino sposo aveva dorato quel frutto, imbiondito quel grano, maturata quell’uva.
Tale fu la vita della pazza per dieci anni.
E non le mancavano le sofferenze di una persona normale, giacché quando arrivava l’inverno vedeva il volto del sole suo sposo impallidire e rabbrividire sotto la neve, come quello di un bel giovane ferito a morte; e lei, dopo aver visto l’immensa gloria del sole oscurata da fitte nuvole, come accade ai più grandi uomini di questo mondo, a cui l’invidia oscura la gloria, anche lei, sfortunata donna, diventava la più triste creatura del mondo.
Ma in primavera, la povera pazza del dottor Blanche ritrovava a maggio il suo sposo, come lo aveva lasciato, splendente come sempre, con tutte le foglie degli alberi che spuntano al suo arrivo, come scintille sotto il martello del fabbro, e una dolce gioia tornava nel cuore della misera: lasciava il lutto, vestiva l’abito più splendido, cantava la sua più dolce canzone.
Questa folle felicità durò per dieci anni senza poter essere curata.
Ma così, questa donna era felice! Perché allora curarla dalla sua felicità?

Sono ormai passati tre anni da quando l’innamorata del sole è morta, e la sua morte è stata commovente come la sua vita.
Era una bellissima giornata d’autunno, mezzogiorno, il sole morbido e calmo gettava sulla terra e sulla sua sposa i suoi raggi purissimi.
Mai il cuore di lei era stato più pieno d’amore, mai il suo sguardo era mai stato più tenero, mai il suo sogno si era tanto avvicinato a realizzarsi.

Ma, o cielo! improvvisamente il sole scompare, a poco a poco e si ferma bruscamente nascondendosi, diventando invisibile!
Dov’è?
Sì – lei geme – sì, mio ​​marito è andato dalla sua amante! sì, è infedele! sì, se ne è andato di giorno e non tornerà più.
La povera donna, vedendolo scomparire di colpo, all’improvviso, senza sapere dove stava andando, senza sapere se sarebbe tornato, è morta durante l’eclissi, morta di gelosia, di disperazione e di amore.

Era morta da appena un secondo, che il sole, liberato dalla sua innocente congiunzione con la terra, continuò tranquillamente la sua strada; ma era troppo tardi: il dramma era compiuto.
La povera donna era morta e il triste e calmo raggio di sole che cadde su di lei, come a chiedergli perdono per la sua assenza involontaria, non ha potuto risvegliarla!

Come ogni feuilleton che si rispetti, non manca un ultimo (o penultimo…) colpo di scena.
Come ho lasciato intendere, pur essendo accertato che Ninette Delille è un parto della fantasia di Luigi Muzzi, ispirato dal racconto di Janin, durante l’indagine sull’innamorata del sole sono emersi alcuni indizi che il racconto fantastico di Jules Janin possa essere basato su un fatto vero.
Il primo indizio è ovviamente l’incipit del racconto “L’Eclissi” in cui Janin colloca la storia nella casa del dottor Blanche, da lui frequentata, insieme ad Alexandre Dumas, Theophile Gauthier e Gerard de Nerval (erano stati compagni di scuola al liceo Charlemagne) come amico e ammiratore di Esprit-Sylvestre.
Altro indizio è quell’aggiunta “Una storia vera” al nuovo titolo del racconto (“La sposa del sole”) in occasione della ristampa del 1835 sul “Journal du Cher”.
Come terzo indizio possiamo mettere l’autorevole opinione di Foulques che al riguardo scrive: “Il fatto, se non vado errato, è storico e sarebbe avvenuto a Montmartre nella casa di salute del celebre dottor Blanche“.

Ma la certezza che un fatto vero sia all’origine del racconto viene, tanto per cambiare, da Google.
Cercando su “Google libri” le parole “Janin” “Blanche” e “epouse du soleil”, il primo risultato è un frammento del libro “Jules Janin: conteur et romancier” di Jacques Landrin del 1978 in cui si legge

“Per capire i meccanismi della sua fantasia, ‘La Sposa del Sole‘, ripreso sotto il titolo di ‘La Folle‘ (in ‘Le Catacombe‘, 1839) è un caso privilegiato, poiché abbiamo la fortuna di conoscere il fatto vero che sta alla nascita di questo racconto. Dopo la morte del dottor Blanche,[…]”

e con una suspense degna di Hitchcock, lì ci lascia in sospeso, ma con parecchia acquolina in bocca.

Purtroppo su Google non c’è la digitalizzazione completa di quel testo del 1978, e nemmeno una anteprima di qualche pagina intera, ma solo qualche frammento: ma in attesa di procurarmi il libro e venire finalmente a capo di questa storia, ho provato a vedere se con qualche “variante” delle parole chiave della ricerca sarei riuscito a convincere Google a farmi vedere, in un altro frammento, come prosegue quel paragrafo.
E infatti, con “amoureuse du soleil” come parola chiave, facciamo un passo avanti, ecco il frammento successivo:

Il 4 novembre 1852 , dopo la morte del dottor Blanche, di cui era stato amico, Janin gli rende un magnifico omaggio: tra le tante guarigioni che ha compiuto, ne cita solo una: quella di una giovane donna che si credeva innamorata del sole e che oggi piange per il suo defunto benefattore.

Ora sì che possiamo asciugare le lacrime: abbiamo la certezza del lieto fine perché l’innamorata del sole è evidentemente sopravvissuta anche alle eclissi, uscendo guarita dalla clinica di Esprit Blanche.
Per il nome e cognome, e altri dettagli, non resta che recuperare il libro di Landrin e vedere cosa c’è nella nota (35).

Oppure… cercare quel necrologio scritto da Janin per il dottor Blanche sui giornali di Parigi del 5 novembre 1852?

Il capolavoro del Dottor Esprit Blanche

Una parola ormai desueta, “agnizione”, indica il riconoscere o il riconoscersi di persone in particolari circostanze. Come scrive Wikipedia, “Il caso classico è quello del personaggio che, al termine di una serie più o meno complessa di vicende, viene riconosciuto da altri o si autoriconosce nella sua vera identità; il riconoscimento può riguardare anche i modi e i tempi con cui il lettore scopre la verità, abilmente celata dallo scrittore. Il procedimento è tipico del romanzo giallo o avventuroso“.
Non poteva dunque mancare una clamorosa agnizione anche in questo nostro feuilleton: e ce la fornisce ovviamente Jules Janin, maestro in quel genere, e per di più proprio nel feuilleton del Journal des Debats (da cui ha preso nome il genere) dell’8 novembre 1852.
Mentre sulla parte superiore della prima pagina si racconta di come il Senato di Francia stia per proclamare il Secondo Impero, dopo il colpo di stato di Luigi Napoleone l’anno prima, nella parte bassa, il feuilleton, Jules Janin parla di teatro e musica, ma appena voltata la pagina inserisce un lungo ed accorato encomio funebre dedicato al suo vecchio amico, il dottor Blanche, venuto a mancare tre giorni prima.
Chi volesse leggersi integralmente quel feuilleton del Journal des Debats potrà scaricarselo da qui: Journal des Debats e vi troverà il necrologio evidenziato con un fondo giallino e il “colpo di scena”, l’agnizione che ci interessa evidenziata con un fondo verde.
Ma vado anche a darne la traduzione con testo a fronte in italiano, sperando di non aver frainteso quello che scrive Janin e che ci porta a dare un nome e cognome ben preciso all’Innamorata del Sole: Marie-Madeleine Sophie Bertrand, proprio lei, l’angelo della Maison du Docteur Blanche, l’infaticabile ausilio del grande filantropo: in altre parole, sua moglie!

In attesa di avere in mano il documentato saggio di Jacques Landrin che mi ha messo su questa pista e che dovrebbe confermarla con ulteriori particolari, resta ancora aperta un’ultima possibilità: che Janin con quel “l’ha sposata” intendesse che dopo averla guarita “le ha procurato un marito” o “le ha fatto da padrino per il suo matrimonio”, nel qual caso, purtroppo torneremmo in alto mare sull’identità della donna; ma quel “ed è lei che oggi lo piange!” mi sembra incontestabilmente riferito alla vedova.

In ogni caso non si poteva certo sperare di meglio: dalla tragedia dell’eclissi incisa nelle lugubri iscrizioni mortuarie di Muzzi siamo passati ad un fiabesco lieto fine che corona la guarigione dell’Innamorata del Sole con un bel matrimonio felice in cui vissero tutti felici e contenti…

E dunque, giuntomi finalmente il ponderoso testo di Jacques Landrin su Jules Janin e sfogliato immediatamente fino alla pagina 294 eccoci arrivati al gran finale della storia di Ninetta.
Anticipo immediatamente che, con ulteriore sorpresa dovuta proprio a quella pagina, l’innamorata del Sole non è Marie-Madeleine Sophie, moglie del Dottor Blanche.
Ma, come si vedrà, quel “l’ha sposata” che Janin, nel necrologio, riferisce evidentemente al dottor Blanche è del tutto giustificato dai fatti: infatti il dottor Blanche fu colui che guarì dalla sua follia la sposa del Sole, ma per farlo dovette sposarla.

Ecco dunque, come raccontata da un testimone dell’epoca, Joachim Duflot, la vera storia dell’innamorata del Sole, per lo meno come l’ho capita io….

Duflot racconta di aver incontrato una giovane ragazza, di nome Lauretta, che era innamorata del sole e pensava di essere la sua sposa. Era stata internata nella casa di cura del dottor Blanche a Montmartre e quella sua follia la spingeva a scrivere continuamente lettere d’amore al Sole: ne riceveva immediata risposta, con l’esortazione a guarire da un amore così insensato; le sollecitazioni del suo amato sposo la spinsero pian piano a diradare quella folle corrispondenza finché alla fine scrisse al Sole di smettere di scriverle. Dopo venti giorni senza più scrivere lettere al Sole, si rese conto di essere finalmente guarita da quella follia: il medico che l’aveva meravigliosamente curata, impersonando il suo sposo solare e rispondendo alle sue lettere, non era altri che il dottor Blanche.

Ce même cas nous est rapporté, avec plus de details, par Joachim Duflot dans un article de Bagatelle, paru deux ans avant le conte de Janin. L’auteur raconte comment il fit la conaissance d’une jeune fille, Laurette, qui était amoureuse du soleil. On l’interna à la maison de santé du docteur Blanche, où elle écrivit letters sur lettres au soleil, qui lui répondit d’abord en l’invitant fermement à se guérir de cet amour insensé; puis ses letters devinrent de plus en plus séches, dans la derniere enfin, il lui enjoignit de cesser toute correspondance. Elle resta vingt jours sans lui écrire: au bout de ce temps elle comprit qu’elle avait été folle: le docteur qui avait opéré cette guérison merveilleuse, n’était autre qui el docteur Blanche.”

Detto questo, non mi resta che chiudere questa storia infinita con una doverosa lapide funebre con iscrizione in rima più o meno alternata…

La mela marcia

Il mio primo PC, del 1981, era un compatibile piratato dell’Apple II che si chiamava Lemon II e solo la scheda madre costava come due stipendi, tre stipendi se volevi aggiungere un po’ di ram e il lettore di floppy da 128k.
Ecco il drammatico listino prezzi, l’unica cosa che mi resta di quel PC, oltre alle eprom che contenevano il sistema operativo di Wozniak e Jobs e il linguaggio Applesoft Basic di Bill Gates.

Però, qualche giorno fa, recupero dopo 30 anni di soffitta, il mio secondo PC, risalente al 1985, costato anche lui tre stipendi.
E’ un Apple //c la versione aggiornata, portatile e compatta dell’Apple II.

Quello che si nota immediatamente è il color cacchina da Commodore 64 che ha preso la plastica del case, originalmente in bianco Apple, come si può notare dalla differenza tra il tasto “Reset” (in plastica che non è stata trattata col bromo ignifugo) e il resto del case.

Il mouse antidiluviano a palla rotante sembra in buone condizioni…

ma la tastiera è in stato di avanzata decomposizione:

il cuore del sistema è affascinante nelle sue dimensioni gigantesche, con i circuiti che escono dalla CPU grandi come i canali di Marte

Ma sulla testina del floppy trovo uno strato notevole di ossido ferroso che non fa ben sperare sulla sua efficienza.

La vecchia ciabatta si accende ma il test della memoria dice subito che qualcosa non va.
Ben tre moduli di RAM, da ben 8 kbyte l’uno sono andati definitivamente.
Eccoli qui, dopo che li ho estratti dalla scheda madre con le buone o con le cattive: ho seguito un corso su Youtube per imparare a dissaldare e saldare, cosa mai fatta prima, quindi è normale che la prima estrazione abbia avuto qualche… ehm… difficoltà…

Forse con più culo che abilità, e grazie all’elettronica di dimensioni giurassiche dell’epoca, riesco a piazzare tre socket al posto dei chip guasti su cui vado a inserire tre ram dell’epoca (anche se non marcate Apple) trovate su ebay.

Miracolosamente, all’accensione tutto riparte come trent’anni fa: l’unico problema è che dei dischetti floppy che mi sono rimasti (quasi tutti copie pirata di giochi dell’epoca) l’unico che funziona è quello (originale) con il software che accompagnava il mouse.

Coming soon:
1) acquisto di un “Floppy emu” per caricare software e giochi, scaricati da internet, usando una micro-sd in aggiunta al floppy disk
2) acquisto di un prodotto sbiancante per far tornare candido come prima il case dell’Apple //c.

Le sorprendenti avventure di un povero cristo

“Dipinto di un mediocre pittore della metà del XVIII secolo e di area emiliano/romagnola. A parte qualche brano ben fatto, complessivamente il quadro non è attribuibile ad un maestro, ma va inserito in una produzione di bottega, quasi seriale”.

Come all’antiquario – che ne ha dato questa decisa stroncatura – nemmeno a me è mai piaciuta questa “Agonia nell’Orto degli Ulivi”, appesa nel corridoio più buio di casa mia.
A parte la cupa tristezza del soggetto religioso, l’angelo che consola Gesù è davvero poco bello, e anche di Gesù se ne son visti di meglio.
Perché ne parlo allora?
Perché, gugglando gugglando, ho scoperto che invece di essere una “produzione di bottega quasi seriale in area emiliano-romagnola” è la copia di un quadro francese del 1651, molto famoso ai suoi tempi: un quadro che al di là del suo valore artistico, ha un’avventurosa storia che vado a raccontare – rigorosamente a puntate – iniziando dall’elenco dei personaggi coinvolti in ordine di importanza storica, un elenco che sembra preso pari pari da un romanzo di Alexandre Dumas:

  • Luigi XIV, le Roi Soleil
  • Caterina la Grande, Imperatrice di tutte le Russie
  • Anna d’Austria, Regina Madre, vedova di Luigi XIII
  • Il Cardinale Mazzarino
  • Nicolas Fouquet, Sovrintendente alle finanze del Regno di Francia
  • Jean-Baptiste Colbert, politico ed economista
  • Charles Le Brun, primo pittore di corte di Luigi XIV
  • la Marchesa Suzanne du Plessis-Bellière
  • D’Artagnan, sottotenente dei Moschettieri del Re
  • La Maschera di Ferro, detenuto misterioso nel carcere della Fortezza di Pinerolo

Nel 1646, il giovane pittore francese Charles Le Brun ritornava a Parigi dopo alcuni anni passati insieme a Nicolas Poussin in Italia, dove si erano recati per completare la loro formazione artistica sulle opere di Raffaello e dei grandi del Rinascimento italiano.
Aveva bisogno di farsi un nome in Francia e ci provò facendo un magnifico ritratto alla Marchesa Suzanne du Plessis-Bellière, una delle donne più famose di Francia, per la sua bellezza e brillante intelligenza.
Tanto per capire il tipo, è lei che ha ispirato ai coniugi Golon il personaggio di Angelica, la Marchesa degli Angeli.
Quel ritratto non è sopravvissuto alla Rivoluzione Francese ma, tratta da un disegno di Le Brun che raffigura la bella vedova del Marchese Du Plessis Belliére nei panni di Artemisia, abbiamo questa incisione ottocentesca:


L’Artemisia citata non è ovviamente la generalessa della flotta persiana di Serse, sconfitta a Salamina, ma l’inconsolabile vedova di Mausolo, re della Caria, alla memoria del quale fece costruire ad Alicarnasso la nota “meraviglia” funeraria.
La vediamo infatti addolorata sotto un drappo nero e abbracciata all’urna che contiene le ceneri del marito: e racconta Plinio che volle berne le ceneri per far vivere l’amato con sé e in sé (evidentemente non aveva chiara la fisiologia della digestione, o forse poi non amava così tanto il consorte…).

Ma forse invece che nei panni della vedova afflitta è meglio ricordarla in quelli vestiti da Angelica, Marchesa degli Angeli, impersonata da Michéle Mércier:

La fortuna del giovane pittore fu che, oltre a essere animatrice del salotto artistico più brillante di Parigi, la Marchesa era l’amica, confidente e forse anche “agente segreto” di Nicolas Fouquet, Sovrintendente alle finanze: era l’uomo più ricco della Francia che insieme al più potente, il Cardinale Mazzarino, governava la Francia per conto della reggente Regina madre Anna d’Austria, stante la minore età di Luigi XIV.

Tanto piacque quel ritratto a Fouquet e alla Marchesa du Plessis-Bellière che qualche tempo dopo, alla fine del 1650, Fouquet ingaggiò Le Brun al suo servizio e gli commissionò una serie di di dipinti religiosi raffiguranti i Misteri della Passione e la Vita dei Padri nel deserto, per arredare la casa di campagna della Marchesa a Charenton.
L’allievo e biografo di Le Brun, Claude Nivelon (“Vie de Charles Le Brun et description détaillée de ses ouvrages”), ci informa che il pittore ne approfittò anche per regalare alla Marchesa “un Christ en prière au Jardin des Oliviers“, il nostro quadro, che Nivelon descrive dettagliatamente avendo sott’occhio questa stampa che Rousselet aveva inciso nel 1661 traendola da quel quadro e dedicandola ovviamente alla Marchesa.

Come spesso avviene nelle incisioni, Rousselet copia pedissequamente l’opera di Le Brun sulla lastra calcografica senza tener conto dell’effetto di controparte che sarebbe poi avvenuto durante il processo di stampa.
Ma fortunatamente, basta un click su Photoshop per restituirci la corretta simmetria orizzontale del quadro e apprezzarne la somiglianza con la copia che ha dato origine a questo post.

Introdotti i personaggi principali e il quadro stesso, seguiremo la storia successiva del dipinto partendo dalle pagine 254-256 del “Mercure Galant” del febbraio 1690 che ne parlano diffusamente nell’ambito del lungo “coccodrillo” pubblicato in occasione della morte del pittore Charles Le Brun; e dove assistiamo al prepotente ingresso del Cardinale Mazzarino nella storia di questo quadro.

Racconta, il “Mercure Galant”, che i quadri commissionati da Fouquet a le Brun per la Marchesa ebbero un grande successo e quando Fouquet ne parlò col Cardinale Mazzarino, grande intenditore d’arte, questi gli espresse il desiderio di vederne qualcuno.
Fouquet, allora, chiese in prestito alla Marchesa il quadro dell’Orto degli Ulivi, e lo portò a Mazzarino per farglielo vedere. Al Cardinale il quadro piacque tanto che se lo appese subito in camera da letto e disse a Fouquet che la Marchesa non avrebbe protestato se Le Brun le avesse fatto una copia, in sostituzione di quello di cui si era poco cristianamente impadronito.
La copia, un quadro più piccolo e di forma circolare, fu fatta da Le Brun ed oggi è conservata all’Ermitage di Pietroburgo, perché venne successivamente acquistata da Caterina la Grande:

L’apprezzamento di Mazzarino per quel quadro rese però famoso Le Brun e gli procurò anche la presentazione a Corte: Nivelon racconta che Mazzarino parlò tanto bene di quel pittore ad Anna d’Austria, la regina madre, che essa volle assolutamente vedere qualche nuovo quadro di Le Brun. Le Brun, non avendo nulla di nuovo da mostrare, chiese di nuovo a Madame Du Plessis-Bellière la sua copia del “Cristo nell’Orto degli Ulivi” e la fece vedere alla Regina: e anche lei ne volle avere una copia che poi appese nel suo oratorio, premiando Le Brun con una preziosa catena d’oro e un orologio ricoperto di diamanti.
Entrato in questo modo nella cerchia degli artisti che vivevano grazie al mecenatismo di Fouquet, tra cui basterà citare La Fontaine, Moliere, Madame de Sévigné e Madame de Scudéry, Le Brun ne divenne l’architetto, il decoratore e l’organizzatore delle feste tenute nel suo fantasmagorico castello di Vaux-le-Vicomte.

Un castello talmente bello da destare l’invidia del Re Sole che qualche anno dopo, divenuto maggiorenne, decise di liberarsi di Fouquet, istigato da Colbert che ne voleva prendere il posto: Fouquet si allontanò da Parigi rifugiandosi a Nantes, nella casa della sua amica Marchesa ma proprio lì fu arrestato, per ordine del Re, dal comandante dei moschettieri, d’Artagnan. Il famoso moschettiere lo tenne in custodia per tutta la durata di un clamoroso processo che si concluse però con un semplice bando di Fouquet dalla Francia.
Ma il Re, insoddisfatto della pena, fece commutare l’esilio in una condanna al carcere a vita nella fortezza di Pinerolo, dove Fouquet morì, forse fatto avvelenare da Colbert, nel 1680.
La sua alta posizione sociale al momento dell’arresto, i numerosi segreti di cui era a conoscenza, l’assoluta segregazione dal mondo civile e l’accanimento del re, che volle peggiorare la sentenza dei giudici, fecero sì che molti autori lo identificarono nella famosa “Maschera di Ferro”.

Un dipinto di Le Brun del “Cristo nel Giardino degli Ulivi” fu inventariato – dallo stesso artista – nella collezione di Colbert (1683), senza indicazione di dimensioni o formato; un dipinto dello stesso soggetto entra nelle collezioni reali nel 1695; un tondo delle stesse dimensioni fu acquisito dagli edifici del re da Paillet nel marzo dello stesso anno ed elencato in vari inventari di Versailles fino al 1784, quando fu relegato nel deposito. L’originale di Le Brun fu probabilmente venduto durante la Rivoluzione e le sue tracce si perdono alla fine del XVIII secolo.
Dove sia finito non si sa, di certo non nel corridoio più buio di casa mia… 😀

Ricordi di scuola

Sono così vecchio che il mio bisnonno è nato quando Napoleone Bonaparte era ancora Imperatore di Francia.

Non deve stupire  quindi se quando sono entrato col mio grembiulino a scacchettini bianchi e azzurri nella classe di prima elementare, rigorosamente composta solo da maschietti con i calzoncini corti, vi abbia trovato calamaio con inchiostro nero, carta assorbente e una dotazione di affascinanti pennini dorati.

Il programma di prima elementare, nei primi mesi, consisteva nel “fare le aste”: cioè riempire i quaderni con barre verticali ||||||||||, esercizio evidentemente ritenuto propedeutico ad imparare la scrittura.

Forse prima di Natale mi è stata insegnata la “A” di albero, la “B” di   barca e la “C” di casa: alla fine della prima elementare, comunque, non ero più analfabeta: questo è il magro risultato dopo poco più di un anno di “aste” e di insegnamento della calligrafia:

Ecco i miei compagni di classe:

L’anno dopo riuscivo a leggere il mio primo libro “vero”: una edizione per ragazzi di “Il Principe e il Povero” di Mark Twain, anche se ci capivo solo la metà delle parole.

Le altre materie di studio si possono desumere a questa pagella della terza elementare:

Alle medie una mezza rivoluzione: la nuovissima “Scuola Media Unificata” univa le prime tre classi del Ginnasio, storicamente riservate alle élite culturali ed economiche, con quelle dell’Avviamento Professionale, in cui si incanalavano le classi operaie e meno abbienti. Niente più grembiuli ma classi miste, cambi frequenti di professori (dopo 5 anni con la stessa maestra…). Per tutti, analisi logica, primi rudimenti di latino e i primi brutti voti…

Ma, dopo l’esame di terza media, in quarta Ginnasio del Liceo Classico si tornava all’ancien régime col Greco Antico da tradurre e declamare nella annuale rappresentazione di una tragedia classica.

Posso quindi vantarmi di aver calcato le scene nelle vesti del Corifeo, nelle “Persiane” di Euripide: in effetti, una vera tragedia!

I verbi irregolari greci mi hanno procurato dapprima il voto più basso della mia carriera scolastica in un compito scritto, un bel 2 (su 10), ma con l’aiuto delle ripetizioni di una cugina, e parecchio studio, sono riuscito a chiudere l’anno con la media del 7.

I venti turbinosi del ’68 sfiorarono appena le mura dell’ex-convento in cui era ospitato il Liceo Classico, producendo al più un paio di assemblee studentesche, ma nessuna occupazione da parte degli studenti. In terza liceo, il professore di Italiano, dopo che avevo sostenuto una buona interrogazione (guarda caso, sull’Orlando Furioso) si rivolse alla classe prendendomi ad esempio e dicendo che c’è un momento, dopo anni di studio, in cui l’alunno “sboccia” come un fiore ed è pronto per la maturità; e che era quello il momento in cui l’insegnante si sentiva maggiormente gratificato per il lavoro che aveva svolto. E infatti il temutissimo Esame di Maturità poi filò liscio come l’olio.

Sono queste le poche cose che riesco a ricordare, ormai è passato troppo tempo per i dettagli: non per niente sono così vecchio che il mio bisnonno è nato quando Napoleone Bonaparte era ancora Imperatore di Francia.

Quasi quasi gli somigliavo.

I record d’atletica leggera del “velocipide” Giovanni Mazzesi di Ravenna, 1834

“Velocipede”, prima di diventare sinonimo di “bicicletta”, era un epiteto di Podarge, un’arpia il cui nome significa appunto “la più veloce” e secondo Omero era la madre dei velocissimi cavalli di Achille (“Xanto e Bálio a Podarge incliti figli”, Iliade XIX), anch’egli ben noto come “velocipede” o “piè veloce”, se preferite.Così si definisce dunque il nostro Giovanni Mazzesi, “Velocipide ed agile nel corpo” e, dopo aver elencato i suoi record (“per miglia 6 in meno di minuti 40, per 10 poco più di 60“), promette al benigno pubblico di fare una “Carriera Pedestre”, cioè una corsa, di due miglia sia in andata sia in ritorno “nel breve perentorio dei minuti 26“, ossia fare 6.000 metri di corsa in 26 minuti.

Spera egli di ottenere, come in altri Porti e Città, un benigno compatimento, e questa speranza lo anima a fare ogni sforzo per rendersene sempre più degno e riscuotere il comune aggradimento“.

Ahimé, non erano più i tempi in cui il “piè veloce” era cantato da Omero, né erano ancora i tempi in cui le stelle dell’atletica potevano spuntare cifre astronomiche nei meeting d’atletica e prime pagine dei giornali: quel che resta del Mazzesi, oltre a questo rarissimo e forse unico avviso manoscritto (che comunque lo colloca fra i precursori dell’atletica leggera italiana), è solo uno scarno trafiletto del 1839 che lo vede ancora in attività podistica in quel di Cesena “16/05/1839,  Il ravennate Giovanni Mazzesi esegue una “carriera velocipite” impiegando meno di trenta minuti a percorrere per quattro volte, tra andata e ritorno, la distanza che separa Porta Santi da Porta Fiume“.