Promessa invano a Venere

Dondola, dondola, il vento la spinge
Cattura le stelle per i suoi desideri.
Un’ombra furtiva si stacca dal muro:
Nel gioco di bimba si perde una donna.
(Le Orme, “Gioco di bimba”)

Tra le cose che affiorano dalla terra antica che calpestiamo, le bambole romane, le pupae, non sono rare. Per lo meno quelle più comuni, di umile terracotta, che si poteva permettere anche la figlia di un contadino o di un soldato.
Nulla a che vedere con la lussuosa Barbie d’avorio, trovata nel sarcofago della piccola Crepereia Tryphaena, a Roma, nel maggio del 1889, vicino alla testa della fanciulla che, come Ofelia, galleggiava sull’acqua tra una folta chioma di capelli scomposti.
Eccole qui, le mie piccole tre Grazie, a cui ho deciso di dedicare un reportage fotografico come fossero tre top model, ma con impietosi primi piani che ne rivelano la povera fattura e gli insulti del tempo.

La bambola, a Roma (e ancor prima in Grecia), aveva un significato rituale che andava ben oltre il semplice gioco di bimba.
Ogni bambina ne riceveva una che personificava la sua verginità; al momento del matrimonio, la bambola doveva essere portata al tempio di Venere e lasciata lì, consacrata alla dea cui era stata promessa fin dall’inizio.
Era l’atto finale del rito di separazione dalla propria giovinezza, prima di entrare nella vita matura.
Ma quando la fanciulla moriva prima del matrimonio, la bambola veniva seppellita insieme a lei, invano promessa a Venere.

Ed eccole viste da vicino vicino, per cercare di cogliere qualcosa della personalità della bambina che la spupazzava sognando il giorno in cui l’avrebbe portata al tempio, per sposarsi.
Questa è una fanciulla rotondetta a cui la perdita del naso – specie di profilo – fa assumere un’aria ancor più bambina;

I capelli intrecciati a fascia e la scriminatura centrale ricordano un po’ l’acconciatura della bambola di Crepereia, dell’età degli Antonini, con la moda lanciata da Faustina Minore, moglie di Marco Aurelio e madre di Commodo, quello del “Gladiatore”.

Quest’altra, ha fattezze decisamente più plebee (potrebbe forse essere etrusca, per la tipologia del viso); per di più il fuoco o la sporcizia le hanno disegnato pure qualche pelo superfluo sul viso. Si consolerà col detto:”Donna baffuta, sempre piaciuta”…

E l’ultima, quella del primo banco, la più carina, la più cretina, cretino tu, che rideva sempre, eccola qua, tutta moine con quella pretenziosa capigliatura in perfetto “stile impero”:

Ma anche per lei, il profilo è impietoso e la trasforma subito in una servetta di bottega, come forse era la sua povera padroncina.

Per tutte e tre, però, una unica sorte viene raccontata dall’essere state sotterrate insieme alla piccola padrona, invece di finire al tempio di Venere; una sorte che il Pascoli latinista dei “Carmina” ha raccontato per la nobile Crepereia, ma che val bene anche per le tre bimbe che hanno giocato con le mie piccole, povere pupae .

Va il corteo funebre lungo la riva solatìa,
va triste il mormorio dell’etrusco Tevere
tra siepi di biancospino,
fiorite di corimbi.

Te nel fiore di giovinezza, non Vespero infuocato
tolse ritrosa alle braccia materne,
né i fanciulli, alzando le fiaccole, ti cantarono
l’inno nuziale

Versate ciotole di latte al suolo, secondo il rito,
posai in pace la tua anima nel muto sepolcro
e pronunciai disperato le ultime parole:
“Addio, piccola, addio”.

Ducitur funus per aprica ripae,
murmur etrusco Tiberi ciente
triste, per sepes ubi gignit albos
spina corymbos.

Floridam non te ruber igne Vesper
matris abduxit gremio morantem
nec faces « Hymen » pueri levantes
concinuerunt.

Cymbiis fusis ego rite lactis
condidi mutis animam sepulcris
edidique amens « Have have »
supremum ipse

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