L’Inferno di Filippo Melantone



Filippo Melantone, ritratto dal suo grande amico Albrecht Durer

“Gli angeli mi hanno detto che quando Melantone morì, ricevette nell’altro mondo una casa dalla parvenza uguale a quella che aveva posseduto in terra. (A quasi tutti i nuovi arrivati nell’eternità succede la stessa cosa, e perciò credono di non essere morti.)
Gli oggetti domestici erano gli stessi: la tavola, la scrivania coi suoi cassetti, la biblioteca.
Appena svegliatosi in questo domicilio, Melantone riprese le sue attività letterarie e per qualche giorno scrisse sulla giustificazione della fede.
Come al solito, non spese una parola sulla carità.
Gli angeli notarono questa omissione e mandarono qualcuno a interrogarlo.
Melantone rispose: « Ho irrefutabilmente dimostrato che l’anima può entrare in cielo prescindendo dalla carità: basta la fede. »
Diceva queste cose con gran superbia e non sapeva di essere già morto e che non era affatto in cielo.
Quando gli angeli udirono queste parole, lo abbandonarono. Poche settimane dopo, i mobili cominciarono a dissolversi, fino a diventare invisibili, salvo la sedia, il tavolo, i fogli di carta e il calamaio.
Inoltre le pareti della camera si macchiarono di calce e i pavimenti di vernice gialla. Le stesse vesti di Melantone erano già molto più scadenti.
Tuttavia egli continuava a scrivere, ma poiché continuava a negare la carità, lo condussero in un ufficio sotterraneo dove c’erano altri teologi come lui.
Vi stette imprigionato per alcuni giorni e cominciò a dubitare delle sue tesi; allora gli permisero di tornar via.
Le sue vesti erano di cuoio non conciato, ma egli cercò di immaginare che quanto gli era successo era stato soltanto un’allucinazione e continuò a esaltare la fede e a denigrare la carità.
Una sera sentì freddo. Girò la casa e scoprì che le stanze non corrispondevano più a quelle della sua casa terrestre. Una era piena dì strumenti sconosciuti; un’altra si era talmente rimpicciolita che non vi si poteva più entrare; un’altra non era cambiata, ma le sue porte e le sue finestre davano su vaste dune.
La stanza in fondo era piena di gente che lo adorava, e ripeteva che nessun teologo era sapiente come lui.
Questa adorazione gli piacque, ma siccome alcune di quelle persone non avevano volto e altre parevano morte, finì coll’odiarle e diffidare.
Allora decise di scrivere un elogio della carità, ma le pagine che scriveva oggi apparivano cancellate all’indomani. Questo avveniva perché le scriveva senza convinzione.
Riceveva molte visite di gente morta da poco, ma provava vergogna a mostrarsi in un alloggio così sordido. Per far credere a costoro che stava in cielo, si accordò con uno stregone di quelli della stanza di fondo, che li ingannava con prodigi di splendore e di serenità.
Appena le visite erano finite, talvolta anche un po’ prima, riapparivano la miseria e la calce.
Le ultime notizie su Melantone dicono che il mago e uno degli uomini senza volto lo portarono verso le dune e che ora è un servitore dei demoni.”

Finzioni
Ho letto molto tempo fa questa fantastica e visionaria descrizione dell’Inferno di Melantone in appendice a “Storia Universale dell’Infamia” di Jorge Luis Borges, sotto il titolo “Un teologo nella morte”.
In calce viene attribuita a Emanuel Swedenborg, dicendola tratta dalla sua opera “Arcana Coelestia”.
Lo stile così “borgesiano” e la naturale diffidenza che ogni lettore di Borges ha nei confronti delle sue dotte citazioni bibliografiche, mi hanno spinto a una breve ricerca per verificare la fonte del passo.
Non mi ha quindi sorpreso il fatto che in “Arcana Coelestia” non esistesse alcun riferimento al destino infernale di Filippo Melantone.
La rilettura del medesimo passo, con la consapevolezza che poteva essere stato scritto da Borges anzichè da Swedenborg, mi ha posto nella stessa situazione – altrettanto borgesiana – del lettore del Chisciotte di Pierre Ménard, che alle medesime parole poteva dare una lettura completamente diversa.
Ma l’esperienza “ménardiana” non è terminata con la lettura di “Un teologo nella morte” come se fosse di Borges; una ricerca iconografica per completare questo post mi ha fatto incocciare nel testo che contiene davvero il racconto in questione.
Si tratta di
“Vera Christiana religio : continens universam theologiam Novae Ecclesiae a Domino apud Danielem cap. VII: 13-14, et in Apocalypsi cap. XXI: 1,2 praedictae / ab Emanuele Swedenborg, Domini Jesu Christi servo. Amstelodami : [s. n.], 1771. – 541, [1] S. 4°”.
Ho quindi dovuto procedere a una terza lettura del passo chiedendomi se l’errore di citazione di Borges fosse casuale o volutamente inserito per confondere il lettore meno disattento, inducendolo in considerazioni simili alle mie.
Io naturalmente propendo per la seconda improbabile quanto affascinante ipotesi.

2 commenti su “L’Inferno di Filippo Melantone”

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