Gli occhi, nel sonno della morte, chiuse.


Dorme, il vecchio cane, sdraiato sul tappeto, davanti al camino.



Dopo la rigida notte passata fuori, nella cuccia, riscaldandosi a vicenda con i miei gatti, è venuto a implorare un po’ di tepore, ed è lì che se la dorme.
Lo vedo muovere un po’ le gambe ed lo sento emettere ogni tanto qualche soffocato grugnito: sta forse sognando di inseguire qualche lepre o di correre a raccogliere un fagiano, cose che un padrone anti-caccia come me gli ha sempre impedito.
Ma ormai sarebbe vecchio anche per quello, già si alza a fatica e ha gli occhi appannati dalla cataratta.
E io mi rileggo il passo dell’Odissea che racconta del cane di Ulisse e penso che da allora forse gli uomini sono cambiati, ma non gli animali.

Mentre si dicevano queste cose, un cane alzò muso ed orecchie. Era Argo, il cane dello sventurato Ulisse, che lui stesso un tempo allevò, senza poterne approfittare, prima di partire per Troia. In passato i giovani lo portavano a caccia di capre selvatiche, caprioli e lepri.
Ora, invece, poiché ormai il suo padrone era dato per morto, stava abbandonato su un mucchio di letame, che serviva a concimare i campi, e lì giaceva il cane Argo, tutto pieno di zecche.
Ma quando sentì avvicinarsi Ulisse, cominciò a scodinzolare e abbassò le orecchie; ma per la vecchiaia non ce la fece ad alzarsi per andare incontro al padrone, come avrebbe voluto.
Ulisse, vedendolo, si asciugò una lacrima, senza farsi vedere da Eumeo.
E gli chiese: “Che meraviglia, quel cane, lì nel mucchio di letame! Il suo corpo è bello, ma sarà stato un vero cane da caccia o uno di quelli che se ne stanno presso le tavole dei signori, allevati solo per bellezza?
Eumeo così rispose: “E’ il cane di un uomo morto molto lontano da qui. Se fosse ancora come Ulisse lo lasciò quando partì per Troia, quanto ti stupiresti nel vedere la sua forza e la sua rapidità. In mezzo al nero bosco non gli sfuggiva nulla; e quanto era abile nell’inseguire le tracce!
Ora, invece, è sfinito dalla sofferenza. Il padrone lontano dalla patria è morto ed anche le ancelle lo trascurano”.

Ciò detto, il piè nel sontuoso albergo
mise, e avvïossi drittamente ai Proci;
ed Argo, il fido can, poscia che visto
ebbe, dopo dieci anni e dieci, Ulisse,
gli occhi nel sonno della morte chiuse.


Anche la vecchia traduzione di Ippolito Pindemonte – ha pur anche lei ormai duecento anni – mi par reggere al passar del tempo e del gusto; ma chiunque abbia un vecchio e fido cane, verso l’autunno della sua carriera di amico dell’uomo, non potrà non commuoversi ai versi omerici che di anni ne contano ormai quasi tremila…

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