L’Atroce Dolore #2

Foto degli anni ’60 della Maddalena di Niccolò dell’Arca, con una angolazione che consente un miglior confronto con l’Atroce Dolore

Assodato che il soggetto dell’Atroce Dolore è la Maddalena di Niccolò dell’Arca, la sigla “A39” apposta alla base della scultura mi ha fatto balenare l’ipotesi di una attribuzione dell’opera al plasticatore riminese Antonio Trentanove  (Rimini, 1745 – Carrara, 1812). Stile e soggetto sono però assai inusuali per un interprete del più puro neoclassicismo di fine ‘700; mentre indizi a favore potrebbero essere il fatto che si tratti di un evidente esercizio di copia (per quanto riguarda lo stile) e del fatto che il Compianto di Nicolò gli era certamente noto dai tempi in cui fu ottimo allievo dell’Accademia Clementina di Bologna (per quanto riguarda il soggetto); nonché per via delle peripezie delle Marie di Niccolò che vado di seguito a riassumere e a documentare fotograficamente.

Le notizie che seguono sono tratte da una “Memoria intorno al gruppo di statue detto le Marie piangenti della Vita”, composta il 7 settembre 1877 da S. Manservisi, che si trova manoscritta nell’Archivio dell’Ospedale della Vita. Il Manservisi vuol dimostrare che “le brutte Marie, salvo errore e con rispetto parlando, non possono essere di Nicolò da Puglia, e che certo non si potrebbe appuntare d’ipotesi troppo azzardata il credere che siano fattura di qualche oscuro artigiano del 1200“.

Nel 1502, quando si ristrutturò la prima volta la chiesa della Vita, il Compianto si rovinò, come appare dalla lista delle riparazioni del capomastro Cesare da Carpi. La chiesa fu poi semidistrutta nel terremoto del 1686. Due anni dopo fu rifatta da G. B. Bergonzoni; le Marie furon poste allora di fianco all’altar maggiore, con sotto un altare, mentre dall’altro lato esistevano altre statue rappresentanti il Transito di San Giuseppe. Nel 1779, in occasione di lavori murari che si stavan facendo nella chiesa, il camerlengo Lucio Santamaria propose all’Arciconfraternita di togliere di li’ i due gruppi, come ingombranti, e di abbattere quello rappresentante il Transito di San Giuseppe, come di niun valore, e “rispetto all’altro delle Marie, sebbene siano di qualche nome in riguardo al loro autore, che credesi Alfonso da Ferrara, ciò non ostante, poichè per le varie azioni di dette statue, anzichè promuovere, sembrano certamente opportunissime a distruggere la divozione ne’ sacerdoti celebranti a detto altare e ne’ circostanti” propose di collocarlo nella loggia, dalla parte delle Pescherie. Ne ottenne unanime consenso. Ma mentre gli operai attendevano al lavoro, un accademico clementino, con minaccie, fece smettere l’opera. Allora il priore e gli ufficiali della Congregazione del sacro altare della chiesa, per non aver noie ed essere in regola, chiesero ed ottennero un rescritto favorevole dal cardinal legato ed un decreto dell’Assunteria d’Istituto. La quale Eccelsa Assunteria “accettando benignamente l’istanza, riflettuto ai speciali e rilevanti motivi di congruenza che consentono la distruzione di alcune statue, per quanto si è od esser possa di giuspertinenza o diritto dell’Istituto delle Scienze e suoi Eccelsi Assunti” approva il trasporto delle altre. Nella loggia verso le Pescherie le figure rimasero fino al 1877, anno in cui fu deliberato dal municipio di Bologna di costruire da quella parte un mercato coperto. Ora [1877] trovansi, come si è detto, a destra dell’altar maggiore dalla chiesa di Santa Maria della Vita, in una cappella laterale, quasi al buio; e questo non è un danno, tanto elle son mal ridotte dalle molte peregrinazioni. I pezzi rotti ne’ trasporti furono rifatti in gesso; ricordo una mano che campeggia mostruosamente grande in mezzo alla scena, e i piedi di Cristo, e il suo braccio sinistro, riattaccato in tre punti. Intorno al collo delle statue pendono da nastri variopinti parecchi ex voto d’argento, con qual vantaggiamento estetico non può dirsi. I ragni lavorano alacremente fra braccia e gambe. Una patina grigiastra di sudiciume e di colore, alta in certi punti parecchi millimetri, ricopre le statue, meno sulla testa di Cristo, lavata dai baci dei fedeli

All’inizio degli anni ’10 del ‘900, complice l’apprezzamento di D’Annunzio, iniziò la rivalutazione critica dell’opera di Nicolò dell’Arca e dopo la guerra 15-18, nel 1922 fu affidato il restauro allo scultore bolognese Malaguti; in quell’occasione la rimozione di un pannello cartonato che nascondeva il cuscino, portò alla luce la firma di Niccolò e pose fine ai dubbi sull’attribuzione del Compianto.
Ecco una documentazione fotografica delle condizioni del Compianto prima del restauro del 1879 e qualche foto di come erano negli anni ’60 prime di altri restauri.

Così si presentava il Compianto nel 1877, più o meno quando lo vide D’Annunzio giovinetto

Deplorevoli condizioni della Maddalena e i piedi malamente rifatti in gesso del povero Cristo

Come si legge, sempre nella “Memoria”, le parti del Compianto che si ruppero durante i vari spostamenti erano state rifatte in gesso, tra cui una mano (direi proprio la sinistra della Maddalena) e i piedi del Cristo.
La cosa è assai evidente nelle foto degli anni ’90 dell’800, prima del restauro – in terracotta – il cui studio iniziò nel 1912 e venne concluso nel 1922 dallo scultore Silverio Malaguti.

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La mano della Maddalena, priva del pollice evidenzia bene il bianco del gesso della mano, poi tinta di scuro, rifatta in gesso con un precedente restauro; o a seguito del terremoto del 1689 – ma lì il Compianto viene dato come miracolosamente illeso – o dopo il 1779 quando appunto il gruppo di statue fu spostato senza troppi riguardi all’esterno della chiesa oppure negli anni successivi, essendo esposto sulla pubblica via alle sassate dei monelli bolognesi o alle burle delle matricole universitarie.

Ma a ben guardare quella foto, direi che anche il volto della Maddalena sembra essere stato rifatto in gesso; specialmente se lo si confronta con il San Giovanni che le sta a lato. Come se la Maddalena, durante il trasporto fosse capitombolata in avanti, sui piedi del Cristo, spezzando la mano sinistra in mille pezzi e spappolandole pure la faccia giustamente sterminatamente urlante, dopo un tale insulto.

Questa considerazione apre la strada ad altre due ipotesi sulla genesi dell’Atroce Dolore.
La prima, che conserverebbe l’attribuzione al Trentanove, vede l’Atroce Dolore come una prova o un esercizio di “plastica facciale” fatto dal Trentanove prima di restaurare in gesso il volto della Maddalena di Niccolò; ma non c’è alcuna notizia al riguardo e dopo il 1779 il Trentanove non si trovava più a Bologna ma a Rimini. Quindi se avesse eseguito lui il restauro dovrebbe averlo fatto da studente della Clementina – uno dei migliori, magari su incarico del Piò – una decina di anni prima.
L’altra ipotesi è che l’Atroce Dolore sia un bozzetto dello scultore Silverio Malaguti, eseguito in occasione del restauro in terracotta del 1922; su questa seconda teoria ho qualche dubbio, a parte il problema dell’inspiegabile “A39” inciso sul pezzo: infatti, mettendo a confronto il profilo della Maddalena nelle foto dell’epoca e moderne si può notare come il caratteristico naso un po’ a punta della Maddalena nasce solo con il restauro del Malaguti nel 1922, mentre la foto di fine ‘800, prima del restauro, ha il naso più simile all’Atroce Dolore.

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Qualche dettaglio sul restauro di Malaguti potrebbe aiutare a valutare queste ipotesi: si dovrebbe trovare in “Cronaca delle Belle Arti” a cura della Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti del febbraio 1923, come si legge nella scheda del Catalogo generale dei Beni Culturali che riporta le poche informazioni che ho trovato relative al primo restauro, nella scheda delle foto d’epoca ([URL=https://catalogo.beniculturali.it/detail/PhotographicHeritage/0800641260]https://catalogo.beniculturali.it/detail/P…tage/0800641260[/URL]).
Ma sfortunatamente quel numero del 1923 non si trova online…

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