Ci crediate o meno, in una delle scatole da scarpe che risalivano al trasloco della casa – venduta – dei miei genitori, che ispezionavo alla ricerca di vecchie foto ho trovato qualche frammento di vita del nonno di mio nonno (e quindi del mio trisnonno) che portava il pomposo nome di Giovan Battista, Gio Batta per gli amici.
Si tratta della minuta di cinque lettere d’amore inviate dal trisnonno a una fanciulla a cui si era dichiarato e che (almeno a parole) dice di amare profondamente. Riporto la prima lettera che mi pare scritta in modo leggibile, anche se è evidentemente una malacopia: in ogni caso, cliccando l’apposito tasto sotto la scansione, sarà possibile leggere la trascrizione. Meno leggibile, anzi decisamente pesante, è lo stile ancora tardo-settecentesco del mio trisnonno: quindi la lettura è consigliata solo a fanciulle romantiche e amanti dei romanzi d’amore del primo ‘800 tipo “Orgoglio e Pregiudizio” o “Le Ultime Lettere di Jacopo Ortis”. Siamo tra il 1796 e il 1797, in una Romagna appena occupata dai giacobini di Napoleone, ma i pensieri del trisnonno volgono da tutt’altra parte, a riprova che “Tira cchiossà un pilu di fìmmina, ca cientu parigli di vo’ “.
Sebbene voi vi siete dimenticata di me, pure l’amor che vi porto non ha permesso ch’io mi scordi di Voi. Vi saluto adunque nel nome del Signore, e vi prego dal Cielo ogni fortuna e felicità. Ricevete vi prego volentieri questo saluto, poiché viene da un cuore che vi ama con fedele e costante benevolenza. Io non voglio esservi molesto col ricordare le varie difficoltà che mi vengono da voi opposte: dirò solo che queste – troppo scrupolosamente da voi considerate – le fate apparir più grandi di quel che sono. Io non so già ( = non mi risulta) che voi siate stata offesa da me né con parole, né con male azioni. Dunque mi gioverà sperare che se Voi non gradite questo saluto come fatto da un fedele e sincero amante, almeno lo riceverete di buon animo come a voi recato da un vero amico qual mi protesto (= quale dichiaro di essere)…
Questo, tanto per capire il tipo; nei frammenti successivi ci sarà qualche dettaglio chiarificatore di questo Jacopo Ortis mancato (eh già, io non esisterei oggi, se avessi avuto un trisnonno romantico come i personaggi di Foscolo e Goethe che alla fine, respinti dall’amata o dalle circostanze, si tolgono la vita).
Zazzarazzaz
Come dice il cantautore di Asti, “le donne a volte, sì, sono scontrose… o forse han voglia di far la pipì”; non so se fosse per un problema del genere, ma la tipa in questione doveva essere davvero scontrosetta. Come si potrà dedurre dalla seconda lettera, oltre a frequentare “giovincelli scherzosi”, si era pure permessa di far notare al mio impettito trisnonno ch’egli era “troppo vecchio” per lei, rifiutando le sue avances. Per la cronaca, essendo il povero Gio. Batta nato nel 1763, al tempo di queste lettere aveva appena gli anni di Cristo…
Se un certo non so qual timore ci ha trattenuti per l’addietro di discorrere alla presenza fra noi, parlerò con lettera, poiché questa non teme né arrossisce. Io non ho già in pensiero (= Non è mia intenzione) di dir male d’alcuno di quei giovani che sono stati o vengono da Voi. Di tutti ne ho buona stima e gli porto quel rispetto che si deve: e se Dio vi ha destinata per alcuno di questi, seguite pure le divine ispirazioni col consiglio d’uomini saggi e prudenti, e specialmente dei vostri Genitori, dai quali dovete sempre dipendere. Io ho conosciuto Voi, una giovane dabbene, non tanto per il nostro trattare (= per la nostra frequentazione) che è stato breve, quanto per l’informazione di persone riguardevoli che me ne hanno fatta pienissima fede: e tanto è stato il buon concetto ch’io ho formato di voi (= che mi sono fatto al vostro riguardo), che quantunque rigettato non ho per ciò lasciato d’amarvi. Non credevo veramente che la differenza che è tra noi del tempo (= dell’età) potesse così alienare da me la vostra volontà, massimamente non essendo io di tale età da poter esser chiamato come Voi mi nominate.
Ma per restare in tema di “Orgoglio e Pregiudizio”, il trisnonno sembra proprio un tipo uguale a quel cugino, Mr. Collins, che si prese un bel due di picche da Elizabeth.
Il suddetto Collins ne trovò un’altra dopo pochi giorni; e così dovette fare il trisavolo (ma non dopo pochi giorni), sempre che alla fine la bella ritrosetta non abbia ceduto diventando la mia trisnonna.
Ma che dirò dell’altro difetto di cui Voi mi accusate? potrei addurre in contrario non esservi alcuna cosa più inetta e biasimevole d’una inutile e vana loquacità; ma confessiamolo pure, la fortuna ha voluto ch’io sortisca un ingegno povero di parole e mancante di sentimenti, ma che si deve fare perciò? non si ritrova persona a questo mondo che non abbia qualche difetto. Quindi è che l’uomo cerca qualche compagnia affinché compatendosi insieme e l’uno aiutato dall’altro possa più facilmente sostenere le incomodità e debolezze di questa misera vita. E questa è una delle principali cagioni che soglionsi proporre a coloro che si vogliono maritare. Ma non voglio passarepiù oltre, giacché non mi sembra necessario addurre ragioniper provare di quanto poco momento (= di quanta poca consistenza) siano le varie opposizioni che Voi mi fate. Io son già persuaso che Voi non parliate con quella sincerità ch’io desidererei. Se Voi voleste parlare con tutta verità, crederei piuttosto dovreste dire che il vostro genio (= carattere) è la vera cagione per cui Voi siete aliena da me. Se così sta la cosa, come io penso, perché dunque cercare tanto minutamente ogni motivo per dir male di me? ma per avventura (= fortuna) la lettera è lunga e Voi già sarete stanca di leggere. Qui dunque farò fine col pregarvi di far sì ch’io intenda qual sia ora la vostra volontà verso di me, oppure qual sia il vero motivo per cui Voi vi mostrate tanto a me contraria. In attenzione (= attesa) di vostra risposta, salutandovi caramente conntutti di casa vostra, mi dichiaro… [servitore vostro ecc.]
Così si conclude la seconda missiva: citando un “difetto” che si intuisce essere un certo mutismo nella conversazione (anche questo è un tratto di famiglia tramandato nei secoli) e cercando di avere una chiara risposta dalla pulzella; ma essa, cuore di pietra, manco lo degnerà di una risposta.
Il trisnonno Gio. Batta era sicuramente una persona seria; una delle poche notizie storiche al suo riguardo è che nel 1806 (dieci anni dopo queste lettere) era “Presidente della Municipalità” del suo paese; una carica assimilabile a quella di sindaco. Né era percorso dalla vena di follia (o di impeto sportivo) che aveva indotto suo padre, Orlando (il mio quadrisnonno), a rompersi una gamba cercando di volare con un macchinismo alato da una collina: ma quella era una moda del Secolo dei Lumi, pare.
In ogni caso, come ho detto, la donzella non rispose alla lettera sopra riportata. E il trisnonno, testardo, dopo due mesi di inutile attesa, prese carta e penna e scrisse questa ulteriore lettera, in cui compare un pericoloso rivale, un “certo giovane” per il quale essa avrebbe una qualche inclinazione; e conclude dicendole che se non gli risponde, la “muta” allora è lei…
Io non ho potuto intendere ancora qual sia stato il motivo per cui voi non avete fatta risposta alla lettera ch’io vi scrissi già due mesi or sono. Per verità non mi sembra credibile che la differenza del tempo (=età) che è tra noi possa averviresa a me nemica in tal modo che abbiate ricusato di rispondermi, sebbene con ogni rispetto e benevolenza vi scrissi.
Quantunque voi abbiati inclinazione ad un certo giovine, non potete già temere che resti offeso perché abbiate a me risposto, poiché si stima officio proprio (= normale attività) e dovere d’ognuno il rispondere a chi cortesemente vi scrive.
Essendo poi riposto in voi il rispondere come vi pare e piace, potrete ancora liberare ognuno da ogni sospetto e timore. Ma non essendo io consapevole a me stesso d’aver fatto a voi alcuna ingiuria, non ho saputo immaginarmi una sufficiente cagione per cui voi abbiate ragionevolmente negato di rispondere. Ma di grazia, se volete che si finisca questo disturbo è necessario che voi rispondiate. Parlate dunque e dite francamente e liberamente il vostro sentimento; névogliate permettere che quel difetto che accusate in me sia con più ragione ributtato in voi; poiché è più da biasimare quella persona che provocata e interrogata non risponde che quella che parla poco quando non è provocata. Spero che attesa la cortesia vostra e gentilezza non vorrete differire più a lungo la risposta, onde con ogni stima e coi più cordiali saluti verso la madre e la sorella, mi ripeto [vostro servitore ecc.]
Ahimé, magari gli fosse pervenuta una qualunque risposta: sicuramente ci avrebbe risparmiato la decifrazione – un po’ più difficoltosa – di quanto segue. Invece, ancora nulla, probabilmente per altri due mesi, fino al 10 ottobre 1796 che è la data posta in calce a questa quarta lettera. A questo punto il trisnonno è un po’ incazzato: lo si capisce da come scrive questa minuta di lettera, piena di aggiunte e correzioni; la maiuscola del “Voi” quando si rivolge a lei diventa minuscola; i toni si alzano: “Devo pensare che voi mi stimiate un vile e quasi infame dal momento che neppure mi credete degno di una semplice vostra risposta“…
Dal lungo e continuo vostro silenzio potrei facilmente immaginarmi qual sia per essere la vostra risposta; pure ho stimato meglio sapèerla da voi parlando che fingerla da per me stesso tacendo. Se però bramate essere stimata una giovane di garbo e di onore, non potete in alcun modo (né può essere da me ammessa per buona la scusa di non saper scrivere poiché avete per pronto chi per voi può scrivere) dispensarvi dal dar risposta. Voi dunque che siete stata educata ed allevata utilmente in luogo riguardevole permetterete che si dica aver voi appreso così poco di gentilezza e costumatezza che senza alcuna ragione abbiate ricusato far parlare in riscontro di quanto vi scrissi? Ma se non avete ricevuto da me alcun affronto, Voi ora tacendo fate a me una grave ingiuria, poiché io devo pensare che voi mi stimiate un vile e quasi infame, mentre neppur mi credete degno d’una semplice vostra risposta. Ma se non è così, qual motivo dunque vi trattiene dal rispondere? Non dovete già temere che sia per lamentarmi della risposta, poiché dipendo dalla vostra volontà, come forse credete ch’io desideri? La risposta, qualunque ella sia, sarà sempre ricevuta da me con buon animo. Io ho sempre riguardato le difficoltà e i pericoli dello stato coniugale con orrore e ribrezzo, il quale diverrebbe maggiore allorché temessi d’incontrare una compagnia che avesse verso di me una naturale antipatia, per cui si rendesse quasi impossibile il potersi amare con quella cristiana carità a cui strettissimamente sono obbligati i coniugati. Io però non ho conosciuto in me questo siffatto naturale verso di Voi, né mi pareva tanto difficile il poter vivere insieme con quella scambievole benevolenza da cui ne deriva quiete d’animo, pace e tranquillità. Ma con chi parlo io oppure a chi scrivo? Mi sembra che voi siate divenuta una giovane che non abbia più orecchie per udire né lingua per parlare. O tempi, o costumi! eppur è vero che voi siete figlia di persone di garbo e di onore e soffrirete (=permetterete) di rendere col vostro procedere meno cospicua ed illustre la fama del vostro nome? Ma io m’accorgo d’essere trascorso troppo innanzi. Di grazia perdonatemi, né crediate che perciò io sia adirato con voi. Già intendo di non esser da tanto ch’io mi meriti esser amato da Voi: pure, io mi tengo d’avanzare assai se riceverò da voi qualche risposta; poiché così darete a conoscere che se non mi amate, almeno non fate di me quel disprezzo che ragionevolmente si crede. Intanto, colla mia solita sincera benevolenza, salutandovi con tutti di casa vostra, mi confermo [vostro servitore ecc.]
La “sventurata” non rispose
Ce ne da’ conto la malacopia dell’ultima lettera che l’esasperato avo inviò dopo altri due mesi di inutile attesa di una risposta, nel gennaio del 1797. Ma nel frattempo, come leggerete, non erano mancate le notizie – da altre fonti – della sua sospirata fanciulla: la perfida gli aveva fatto uno sgarbo che oggi sarebbe equivalente al peggiore dei revenge porn: “Vi siete burlata di me leggendo con disprezzo e derisione le mie lettere ad un vostro amante”. Dopo uno scherzetto del genere cosa fa, invece di fancularla a raffica, quel coglione del mio trisnonno? Le dice che “non ha mutato parere e conserva egualmente quella stima e buon concetto” che aveva di lei.
Dunque non è possibile ricevere più da voi alcuna risposta. Ma che vi credete mai ch’io abbia preteso da voi scrivendovi? Io non ho inteso altro che dimostrarvi la mia sincerità, e farvi chiaramente conoscere che non venni qua per burlarvi e criticarvi, come si dice che voi avete fatto di me. Avendovi io più volte scritto, avete già, non senza mia ingiuria, negata la risposta. A questa ingiuria un’altra assai più grave ne avete aggiunta; poiché vi siete burlata di me leggendo con disprezzo e derisione le mie lettere ad un vostro amante. Appena (= a stento) io vi ho creduta capace di un tale affronto. Ora dunque, essendo ciò vero, abbastanza comprendo che voi sul bel principio (= fin dall’inizio) eravate già risolutissima per la negativa. Dunque voi, come giovane di garbo, non dovevate neppur permettere che s’incomodasse di vantaggio quella persona ch’era stata incombenzata a parlarvi di me (= dovevate dirlo subito a chi avevo incaricato di parlarvi di me). Se voi permetteste che si prolungasse il discorso affine di maggiormente deridermi, questo lo sopporto con animo rassegnato; quello che più mi dispiace si è che voi nel medesimo tempo faceste ingiuria a quella stessa persona che vi parlava in mio nome, la quale essendo onorevole per la carica e venerabile per la dignità, meritava certamente tutto il vostro rispetto. Potrei aggiungere ancora che molte persone le quali mi avevano parlato molto bene di voi, ora, perché forse malvolentieri sopportano questo vostro trattare, hanno già incominciato a cantarvi la palinodia (= a ritrattare tali opinioni). Ciononostante, non ho ancora mutato parere, e conservo egualmente quella stima e buon concetto ch’io sin da principio aveva formato di voi, Se però ora nulla rispondete, voi vi chiamate colpevole di tutto ciò di cui siete accusata, Starò dunque a vedere quanto vi stia a cuore l’onor vostro, e riputazione. Io intanto, salutandovi caramente, resto col miglior sentimento che mai. Alli 7 gennaro1797
E qui, con una serie di interrogativi in sospeso a cui cercherò di rispondere, finisce la documentazione disponibile; un dettaglio dell’albero genealogico sarà l’ultimo tassello per valutare il finale di questa storia e cioè se quella fanciulla è poi diventata sua moglie e mia trisnonna oppure no.
E’ un fatto che poi il trisnonno si sposò con una Caterina Dal Monte di Ca’ de Marconi (ci manca il “Vien Dal Basso”, però c’è il “Dal Monte”) in data ignota, purtroppo: perché, se fosse stata abbastanza vicina al 1797 si poteva anche pensare che alla fine la perfida ritrosa avesse ceduto. Questa è la parte di albero genealogico che ci riguarda:
Partendo da sinistra in alto, dal nostro Giambattista, si dirama l’elenco dei figli che la Caterina gli generò: il primo da destra, Domenico, è del febbraio 1806; il che porterebbe una ipotetica data di matrimonio al 1804 o 1805; Quindi le domande conclusive per stabilire se la fanciulla in questione è la trisnonna sono:
l’età di Caterina (che morirà nel 1850 e di cui non sappiamo la data di nascita) potrebbe essere compatibile con quella della ritrosetta?
perché si sarebbero conservate in famiglia quelle minute, se la cosa era finita lì, ingloriosamente, col rischio che finissero in mano della Caterina?
Ricapitoliamo l’ipotesi “trisnonna ritrosetta”:
1) La “fanciulla ritrosa” dovrebbe essere nata non oltre il 1779; all’epoca delle lettere avrebbe quindi 16/17 anni, già da marito ma abbastanza stupidina da comportarsi in modo così frivolo e maleducato: un uomo che ha quasi il doppio della sua età gli può ben sembrare vecchio (anche se i 10-12 anni di differenza allora erano più che normali) 2) convinta dai genitori, dal 1798 avrebbe dovuto rispondere e riallacciare i contatti col tenace trisnonno (ma non ci sono documenti che lo confermano) 3) dopo un paio di anni di ulteriore corteggiamento siamo nel 1800, il trisnonno è diventato sindaco, il che può aver avuto il suo peso, si sarebbe andati al fidanzamento, nel 1801 4) mettiamoci pure un anno o due di trattative per la dote e siamo nel 1803 5) si fissano le nozze per il 1804, si sposano e nel 1805 rimane incinta di Domenico, che darà alla luce nel 1806 6) Fa un figlio ogni 2 anni circa, nel 1813 tocca a mio bisnonno, e nel 1823 ha l’ultimo figlio, un altro Domenico.
A me pare un’ipotesi con un po’ di problemi: gli anni tra il 1797 e il 1805 sono un po’ tanti per un fidanzamento di quei tempi; e i 45 anni che lei avrebbe avuto quando ha fatto l’ultimo figlio mi sembra un’età un po’ troppo avanzata, anche se non impossibile. Sembrerebbe quindi più probabile che la trisnonna Caterina Dal Monte di Ca’ de’ Marconi fosse un’altra fanciulla, forse sui 18 anni nel 1804/05 e che quindi avrebbe fatto l’ultimo figlio a 37 anni, anziché a 45. E chissà che non fosse proprio la sorellina piccola della “fanciulla ritrosa” rimasta zitella: in effetti, chi se la piglierebbe una così stronza? e poi il trisnonno mandava sempre i saluti anche alla sorella, nelle sue lettere…