Aveva dodici anni, lo zingaro, quando qualcuno gli regalò una chitarra-banjo; e prima di compiere i tredici aveva suonato da professionista in cento orchestre. E aveva solo diciotto anni, all’una di notte del due novembre 1928, quando la sua roulotte prese fuoco. Era piena di fiori di celluloide che la sua giovane moglie preparava per vendere al mercato. Rotolò fuori da quell’inferno avvolto in una coperta, la sua mano sinistra orribilmente ustionata, insieme a tutta la parte sinistra del corpo. Costretto a letto per diciotto mesi, si fece dare una chitarra e con le sole due dita rimaste vive nella sua mano sinistra (l’indice e il medio) sviluppò una incredibile tecnica virtuosistica. Oggi, se non ci fosse qualche filmato che lo mostra in azione, sarebbe impossibile credere che certe scale e certi passaggi siano eseguiti con solo due dita con quelle incredibili scale che ci portano su, sempre più, tra le nuvole…
Sembra quand’ero all’Oratorio, con tanto sole, tanti anni fa…
La Santa Caterina
La Santa Caterina
biribin biribin biribin bom bom
la Santa Caterina
biribìn biribin biribin bom bom
era figlia di un re eh-ehè eh-ehèe
era figlia di un re eh-chè eh-ehè
era figlia di un re, bum!
Suo padre era pagano
biribin biribin biribin bom bom
suo padre era pagano
biribin biribin biribin bom bom
sua madre invece no oh-ohò oh-ohòo
sua madre invece no oh-ohò oh-ohò
sua madre invece no, bum!
Un dí mentre pregava
biribin biribin biribin bom bom
un dí mentre pregava
biribin biribin birìbin bom bom
il padre la scoprí ih-ihí ih-ihíi
il padre la scoprí ih-ihí ih-ihí
il padre la scoprí, bum!
Che fai o Caterina
biribin biribin biribin bom bom
che fai o Caterina
biribin biribin biribin bom bom
in quella posa lí ih-ilìí ih-ihíi
in quella posa lí ih-ihí ih-ihí
in quella posa lí, bum!
lo prego Iddio mio padre
biribin biribin biribin bom bom
io prego Iddio mio padre
biribin biribin biribin bom bom
che non conosci tu uh-uh-ú uh-uhúu
che non conosci tu uh-uhú uh-uhú
che non conosci tu, bum!
Alzati o Caterina
biribin biribin biribìn bom bom
alzati o Caterina
biribin biribin biribin bom bom
se no ti ucciderò oh-ohò oh-ohòo
se no ti ucciderò oh-ohò oh-ohò
se no ti ucciderò, bum!
Uccidimi mio padre
biribin biribin biribin bom bom
uccidimi mio padre
biribin biribin biribin bom bom
ma non rinnegherò oh-ohò oh-ohòo
ma non rinnegherò oh-ohò oh-ohò
ma non rinnegherò, bum!
E gli angeli del cielo
biribin biribin biribin bom bom
e gli angeli del cielo
biribin biribin biribin bom bom
cantarono osannà ah-ahà ah-ahàa
cantarono osannà ah-ahà ah-ahà
cantarono osannà, bum!
Cartoline dal passato
Pesco dalla classica scatola da scarpe bianca – con su scritto a pennarello “cartoline varie” – due belle e vecchie cartoline che risalgono agli anni ’30. Riporto anche (in corsivo) le note che trovo scritte a matita nel retro.

Villa Cimbrone. In questa villa c’è più accozzaglia di stile moresco, gotico molto raffazzonato. E’ posta in posizione diversa da villa Rufolo, ma con vista pure meravigliosa, tanto sul mare che a monte . E’ di proprietà inglese.
Concorda con queste note anche lo scrittore americano Gore Vidal che abita a Ravello da un po’ di tempo: per lui, anzi, da qui si gode il “più bel panorama del mondo”.

Sala da pranzo dell’antico palazzo Rufolo.
Ora adibito a serra. La villa, ossia antichissimo castello, è ora di proprietà francese. Il giardino sarebbe più interessante se meglio utilizzato. La posizione è magnifica. Wagner si è qui ispirato nel II° atto del Parsifal. Leggenda? L’assicurano…
Villa Rufolo, suggestivo complesso in stile arabo-siculo, venne edificata nel secolo XIII dai Rufolo, forse la più ricca famiglia di Ravello. Passata ai Confalone, ed ai d’Afflitto, venne poi ceduta allo scozzese Francis Neville Reid, che ne ripristinò gran parte, soprattutto nella parte dei giardini: “..malioso e meraviglioso luogo…” ove Richard Wagner esclamò: ” il magico giardino di Klingsor è trovato”. Qui venne partorito il secondo atto del Parsifaal e nella sua atmosfera incantata, nel mese di luglio, si tiene l’ormai tradizionale “Festival Wagneriano”.
Di Ravello anche suggestive immagini incise in pietra e in legno da Maurits Cornelis Escher ed echi delle architetture, delle cripte e delle tassellature di Ravello si ritrovano – proprio come un leitmotif wagneriano – in tutta la sua opera.

Seduto in quel caffé…
Il 29 Settembre 1998 in Campidoglio a Roma viene organizzato un concerto in memoria di Lucio Battisti, scomparso venti giorni prima.
La notte del 30 settembre a Giulio Caporaso, direttore della rivista “Diner’s Club” – che aveva partecipato all’evento – appare in sogno Lucio Battisti in un mondo pieno di luce e arcobaleni dove indicava che il ponte tra noi e l’aldilà é l’arcobaleno.
Il giorno seguente, decide di far stampare un album fotografico che rappresentasse in qualche modo il suo sogno, con Battisti e arcobaleni e racconta il sogno in un articolo sulla sua rivista.
Nello stesso periodo in Spagna, Paola Guidelli, una medium italiana lì trasferitasi da Sassuolo, percepisce accanto a sé una presenza che si identifica con Battisti, fin da una settimana dopo la sua morte.
Quando poi la medium chiede a questa entità cosa volesse, la risposta che riceve è un arcobaleno chiarissimo riflesso sullo specchio della casa.
Un mese dopo, la stessa entità si rivela di nuovo e spinge la medium fino ad una libreria e ad uno scaffale sul cui si trova un libro che parla dell’Arco Iris, “arcobaleno” in spagnolo.
Poi le dicee di andare all’ultimo capitolo, le indica frasi e parole da sottolineare pregandola di comunicarle a Mogol, in modo che potesse scrivere una canzone basata su quel testo.
Alla domanda rivolta dalla medium sul perché di questa canzone lo spirito risponde essere “un suo grandissimo desiderio”.
La segretaria di Mogol riceve la telefonata della medium che le spiega i fatti avvenuti e le fa scrivere le parole indicate da Battisti.
Mogol, appresa la curiosa notizia, dapprima è un po’ scettico ma poi, come lui stesso dice, avvennero dei fatti che lo fecero pensare.
Mogol comunque conserva la registrazione telefonica in cui la medium, dieci giorni dopo la morte del cantautore, detta la volontà postuma di Lucio, che inoltre «vuole che la canzone s’intitoli L’Arcobaleno».
Dopo poco infatti viene a conoscenza dell’album fotografico del “Diner’s Club” e la coincidenza della presenza fissa dell’arcobaleno gli pare subito piuttosto strana.
Poi – racconta lo stesso Mogol – una sera in cui erano riuniti lui, Celentano, la Mori e Gianni Bella dice a tutti della strana coincidenza. Gianni Bella gli fa quindi ascoltare un suo nuovo brano portato per l’occasione e Mogol istintivamente lo sente profondamente adatto alle parole mandategli dalla Guidelli.
Quindi avvenne un fatto ancor più strano e decisivo per Mogol a realizzare il brano, ma che preferisce non raccontare. (“Un fatto molto strano […] Se me lo dicessero, non ci crederei…”).
L’arcobaleno
Io son partito poi così d’improvviso
Che non ho avuto il tempo di salutare
L’istante è breve, ancora più breve
Se c’è una luce che trafigge il tuo cuore.
L’arcobaleno è il mio messaggio d’amore
Può darsi un giorno ti riesca a toccare
Con i colori si può cancellare
Il più avvilente e desolante squallore.
Son diventato, sai, tramonto di sera
E parlo come le foglie d’aprile
E vibro dentro ad ogni voce sincera
E con gli uccelli vivo il canto sottile
E il mio discorso più bello e più denso
Esprime con il silenzio il suo senso.
Io quante cose non avevo capito
Che sono chiare come stelle cadenti
E devo dirti che è un piacere infinito
Portare queste mie valige pesanti.
Mi manchi tanto amico caro, davvero
E tante cose son rimaste da dire
Ascolta sempre e solo musica vera
E cerca sempre, se puoi, di capire.
Dall’album “Io non so parlar d’amore” di Adriano Celentano (1999)
Ne ha trattato – naturalmente – anche il CICAP (“Lucio Battisti e l’Arcobaleno”, di Francesco Chiminello) ma l’articolo non è reperibile in rete.
In rete si trova invece – anche se ben nascosta – la notizia che a gennaio 2002, Paola Guidelli ha smentito se stessa annunciando di aver inventato la vicenda «…per scoprire chi fossero i veri amici di Battisti».
Ma come succede alle vere leggende metropolitane, la storia dell’Arcobaleno, della medium e di Battisti è ormai più forte di qualsiasi smentita e vola per la Rete, superando anche questo scoglio: eh già… come può uno scoglio arginare il mare?
Fantasmi a Firenze…
La Fantasima
Un mio amico, anzi compagno della mia vita, Antonio Ranieri, abitava meco nel 1831 in Firenze. Una sera di estate passando per via Buia trovò in su ‘l canto presso alla piazza del duomo, sotto una finestra terrena del palazzo che ora è dei Riccardi, fermata molta gente che diceva tutta spaventata:
– Ih, la fantasima! –
E guardando per la finestra nella stanza, dove non era altro lume che quello che vi batteva dentro da una delle lanterne della città, vide egli stesso come un’ombra di donna che scagliava le braccia di qua e di là, e nel resto immobile. Ma, avendo pe ‘l capo altri pensieri, passò oltre; e per quella sera nè per tutto il giorno vegnente non si ricordò di quell’incontro.L’altra sera, alla stessa ora, abbattendosi a ripassare dallo stesso luogo, vi trovò raccolta più moltitudine che la sera innanzi, e udì che ripetevano con lo stesso terrore – Ih, la fantasima! –
E riguardando per entro la finestra rivide quella stessa ombra, che pure, senza fare altro moto, scoteva le braccia. Era la finestra non molto più alta da terra che una statura d’uomo, e uno tra la moltitudine, che pareva un birro, disse – S’i’ avessi qualcuno che mi sostenessi ‘n su le spalle, i’ vi monterei per guardare che v’è là drento. – Al che soggiunse il Ranieri – Se voi mi sostenete, monterò io. – E dèttogli da quell’uomo – Montate, – montò su, ponendogli i piedi in su gli òmeri; e trovò presso all’inferriata della finestra, disteso in su la spalliera di una seggiola, un grembiale nero che, agitato dal vento, faceva quell’apparenza di braccia che si scagliassero, e sopra la seggiola, appoggiata alla medesima spalliera, una rócca da filare, che parea il capo dell’ombra. La quale rócca il Ranieri presa in mano mostrò al popolo adunato, che con molto riso si disperse.
(Giacomo, Conte di San Leopardo)
Via Buia, prima di essere allargata – almeno nell’ultimo tratto – nel 1860-61 per “facilitare il traffico [e] offrire agli ammiratori una più bella vista della Torre di Giotto e della Cupola del Brunelleschi” era il nome dell’attuale via dell’Oriuolo e nome più adatto per essere abitato da fantasmi e fantasime non si poteva certo dare: ma per Firenze Capitale d’Italia e il suo traffico si doveva ben sacrificare qualcosa…
L’ultimo volo del Piccolo Principe
A lungo avvolta nel mistero, la scomparsa in volo dell’autore del “Piccolo Principe”, è ormai definitivamente accertata.
Non fece dunque un volo infinito fino al piccolo pianeta dove ancora lo aspettava un Fiore gentile, ma il suo Lighting P38, il 31 luglio 1944, precipitò presso l’isola di Riou, vicino a Marsiglia.
La storia, è questa:
Il 7 settembre 1998, un pescatore di Marsiglia, M. Bianco, aveva trovato tra le reti un braccialetto d’argento col nome di Saint-Exupéry, della sua giovane sposa Consuelo e l’indirizzo dei suoi editori di New-York, Reynal & Hitchcock.
Gli eredi non la vollero riconoscere come autentica, ma da allora, moltissimi subacquei professionisti hanno esplorato a fondo la rada di Marsiglia; Luc Vanrell, uno dei miglior conoscitori della zona, dopo la scoperta del braccialetto decise di consultare i suoi archivi fotografici poiché si ricordava di aver filmato i resti di un aereo, col profilo di un Lighting, da qualche parte nel fondo del mare, vicino all’isola di Riou.
Le foto furono pubblicate su “Le Figarò” nel maggio del 2000, destando nuove polemiche con gli eredi.
A 80 metri sul fondo, vicino all’isola di Riou, è stato in questi giorni ritrovato l’aereo, smembrato dall’attacco di un Messerschmitt, ma ancora ben riconoscibile.
Luc Vanrell ha chiesto il consulto di uno specialista nel campo aeronautico, Philippe Castello; questi, accorso a Marsiglia gli ha dato la certezza che si trattava proprio dell’aereo di Saint-Exupéry: «Solo tre Lighting P38 erano stati modificati per l’uso di ricognizione fotografica: di due esemplari è ben noto dove si trovano, quello trovato in fondo al mare quindi non può essere che l’aereo di Saint-Exupéry»
Il était une fois
un petit prince
qui habitait une planète
à peine plus grande que lui,
et qui avait besoin d’un ami…
L’uomo è una bestia
Avrete letto la notizia: due studiosi di psicologia sociale della University of California di San Diego, Michael M. Roy e Nicholas J. S. Christenfeld avrebbero accertato che la somiglianza fra cane e padrone obiettivamente esiste, e individuato la causa che la determina.
Il risultato della ricerca sarà pubblicato sul numero di maggio della rivista della American Psychological Society, Psychological Science, ed è illuminante: deriva dalla scelta del cane, a propria immagine e somiglianza, al momento dell’acquisto.
Qualcuno ricorderà forse l’incipit della carica dei 101 di Disney, ma io ne approfitto per un simpatico excursus sulla “Fisiognomonia animale” nel corso dei secoli, seguendo la falsariga di un famoso saggio di Jurgis Baltrusaitis con quello stesso titolo; per poi passare ad un esperimento più “personale” dove, dalla mia foto – che posterò qui sotto, potrete decidere a quale animale assomiglio.
E alla fine, magari tra qualche post, forse ci scappa pure un simpatico quiz adeguato all’argomento.
L’identificazione tra l’uomo e la bestia risale alle epoche più remote.
Tutti i trattati, tanto latini quanto greci, dedicano interi capitoli a questa fisiognomonia zoologica in cui ogni parte del corpo s’identifica con quella di un animale rivelando caratteristiche occulte. La dottrina viene esposta in proposizioni rapide, stringate, senza commenti né spiegazioni, ma la sua stessa concisione evoca brusche visioni.
La dottrina si evolverà, fin quasi ai giorni nostri, secondo tali princìpi e le loro precise interpretazioni.
Il Medioevo riscoprì le fisiognomonie greco-romane sia direttamente sia tramite l’Islam. Polemone, il cui capitolo II esamina la rassomiglianza fra l’uomo e gli animali, i caratteri dei due sessi e il modo di dedurre il carattere dell’uomo dalla sua somiglianza con l’animale, fu tradotto in arabo sin dal decimo secolo. Ai mussulmani dobbiamo inoltre una versione abbreviata del trattato di Aristotele (Sirr-al-Asràr o Segreto dei Segreti), sotto forma di una lettera ad Alessandro in cui il filosofo dà al re alcuni consigli sulla scelta dei ministri, degli amici e degli schiavi. Ma la fisiognomonia araba aveva anche una tradizione propria, con una copiosa letteratura in materia.
Il manuale di medicina (Al-Tibb al-Mansúri) di Rhazes le dedica cinquantotto capitoli. Fra i libri importanti, il Kitàb al-Firàsa di Al-Ràzi (1209) eccelle nelle speculazioni sulla natura e sulle forme animalesche dell’uomo, mentre Al-Damashki (1327) affianca alla fisiognomonia propriamente detta gli elementi astrologici che per molto tempo ne determineranno la diffusione e lo sviluppo.
Molti di questi scritti furono bene accolti in Occidente.
Il Liber Almansorius venne tradotto in latino da Gherardo da Cremona (morto nel 1187), e la Lettera di Alessandro da Filippo da Tripoli (inizio del tredicesimo secolo); essa ebbe inoltre un gran numero di versioni in tutte le lingue d’Europa. Il Liber physionomiae di Michele Scoto, astrologo e mago di Federico II, è basato su queste due fonti, mentre il Sirr-al-Asràr si ritrova nei Secreta di Alberto Magno e nella fisiognomonia di Ruggero Bacone.
Vabbè per ora può bastare; ora è arrivato il momento di pubblicare la mia foto, così il paziente lettore arrivato fin qui, potrà decidere a quale animale assomiglio di più.
Anzi farò di meglio: visti i risultati della ricerca americana, tanto vale postare la foto del mio cane Tobia… 😀
Suonala ancora, Goldberg
Reichsgraf von Hermann Carl Keyserlingk
Il conte Hermann Karl von Keyserlingk, ambasciatore a Lipsia e Dresda della zarina Elisabetta I, soffriva di insonnia: fece allora scrivere dal miglior musicista che conosceva, un’aria al clavicembalo per allietare le sue notti insonni.
Per di più, richiese un buon numero di variazioni sul tema, perchè tenera è la notte, ma anche lunga assai.
Il lavoro del compositore gli piacque tanto (trenta variazioni una più bella dell’altra) che lo ricompensò con grande generosità: una coppa d’oro contenente cento monete d’oro che equivaleva al suo stipendio annuale di Kappellmeister a Dresda.
Il titolo originale della composizione era “Aria con diverse variazioni”, ma il pezzo non è diventato famoso col nome del munifico Keyserlingk (che pure le chiamava “le mie variazioni”) né col nome del bravo compositore (che pure era Johann Sebastian Bach): è infatti universalmente conosciuto come le “Variazioni Goldberg” dal nome del clavicembalista del conte.
“Caro Goldberg, suona per me una delle mie variazioni” era solito dire il conte al suo clavicembalista, nelle sere in cui l’insonnia non gli dava tregua.
Ora che le hanno pure usate nei titoli di testa del film “Hannibal”, speriamo che non le chiamino le “variazioni Cannibal”.
Ecco qui un’ora e mezza di variazioni sul tema: chi ama la musica barocca apprezzerà, chi invece la trova noiosa, potrà sempre farne l’uso del conte von Keyserlingk: conciliarsi il sonno.
Qui, invece, per chi ama seguire la musica sulle note, l’Aria che sarà la base per le trenta variazioni.
Il bootstrap per la Luna del Profeta Elia
Quando spingiamo il tasto che accende il computer, dopo qualche istante sentiamo un piccolo bip seguito, poco dopo da un secondo bip.
Tra il primo bip che segnala il compimento del POST (non quello che scriviamo sul forum, ma il Power On Self Test=verifica automatica dopo l’accensione) e il secondo bip, che segnala l’avvio del sistema operativo, il PC esegue una operazione che in gergo tecnico si chiama BOOTSTRAP.
La parola bootstrap in realtà non ha nulla di tecnico, è una classica “battutona” americana che indica il tentativo di una persona che cerca di sollevarsi in aria afferrandosi per le strighe degli stivali e tirando su; e in effetti è un po’ quello che cerca di fare il PC: usare un programma per far partire un altro programma (il sistema operativo).
Ma, assai prima degli spiritosoni americani, un assai originale sistema di bootstrap lo aveva inventato il Profeta Elia, per arrivare sulla Luna.
La storia è raccontata da Savinien Cyrano de Bergerac, si, proprio lui, il nasuto e romantico protagonista della commedia di Rostand, in realtà oltre che spadaccino, anche originalissimo scrittore francese del ‘600.
“L’ordine di andare sulla Luna è venuto ad Elia dall’angelo del Signore: «Dovete sapere che l’angelo mi aveva detto in sogno che, se avessi voluto possedere una scienza perfetta com’era nei miei desideri, avrei dovuto salire nel mondo della Luna, dove avrei trovato nel paradiso d’Adamo l’albero della Scienza, e non appena avessi gustato del suo frutto l’anima mia sarebbe stata rischiarata da tutte le verità che è capace di comprendere una creatura».
Per eseguire l’ordine dell’angelo, Elia si è messo al lavoro, ha fuso in un forno una calamita di circa due piedi quadrati e l’ha ridotta in un blocco delle dimensioni di una palla non tanto grande; poi ha fatto costruire un’insolita vettura, un carro di ferro molto leggero, vi è montato dentro e ha lanciato in alto con forza la palla calamitata che ha attirato verso di sé l’ingegnoso missile. «Man a mano che arrivavo dove mi aveva attratto la calamita», – prosegue Elia – «non appena ero salito fin là la mia mano la rilanciava ancora più su». Così, ripetendo meccanicamente quell’operazione, è arrivato sulla Luna”.
(Cyrano de Bergerac, «Incontro con il profeta Elia», in: L’altro mondo ovvero stati e imperi della luna, Roma, Theoria, 1982, pp. 37-46).
Due cuori e una capanna
Quando, un bel po’ di tempo fa ho lasciato l’appartamento in città per andarmene a stare in una piccola casa di campagna, ho avuto il piacere di provare due sensazioni che non mi sarei aspettato.
La prima, piuttosto indefinibile, camminando nel prato circostante è stata quella di calpestare una terra che mi appartiene; forse residuo ancestrale di una famiglia che aveva posseduto terreni qui attorno fin dal 1200.
La seconda inaspettata sensazione la provo ancora tutte le volte che alzo la testa dal mio posto di digitazione e vedo *quel* tetto sopra di me.
E’ una sensazione che mi fa sentire davvero “a casa”: evidentemente residuo ancor più ancestrale di avi abitatori di capanne o palafitte negli acquitrini del neolitico padano.
Forse si capisce meglio se vi faccio vedere… 😉
