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Per me Jerushalajim è una città che si ripete, una piazza di Cesari e di Cristi, e delatori, stregoni, fanatici… una nausea, una malasorte, l’odore insopportabile dell’olio di rose della mia gloria inaudita. Per il figlio del re degli astrologi, non ci poteva essere peggiore condanna di tanta immortalità.
Da duemila anni non ho altro sonno che questo avviarmi intabarrato in un mantello bianco foderato di rosso verso il luogo dell’interrogatorio, come se fosse sempre il 14 del mese primaverile di Nissan e avessi altre parole da spendere e altre cose da udire, e nessuna malinconia, nessuna emicrania, nessuna esecuzione da ordinare.
Il mio è un brutto mestiere: lascia gli occhi infiammati e la bocca immersa nello scontento; a conoscere troppo a fondo gli uomini, si prova affetto solo per i cani e non si crede nell’avvento di nessuna verità. Tutto si muove tra gli spazi d’un solo infinito copione dove a me tocca in eterno officiare la commedia delle utopie tradite e crocifisse, e chiedere ogni volta, con la voce rotta dall’abuso del comando, di guarire dalla mia viltà.



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