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Lola, Dolly, Dolores: sono molti i miei nomi, ma per un quarantenne studioso di letteratura fui sempre e soltanto Lolita, rosa e lacrime, ninfetta demoniaca, enfant charmant et terrible, nebuloso turbamento e ineffabile lacerazione, impasto di trasognato candore e di perversa volgarità, crisalide di grazia e perfidia, puerilità e disincanto, goffaggine e languidezza.
Avevo uno zigomo gattesco, gli occhi grigio pallido, l’odore acerbo e inebriante, le spalle colore del miele, le gambe due linee d’avorio affusolate, il volto mutevole e botticelliano: ilare, luminoso, imbronciato di malinconia, mosso da violento malumore. Per Humbert Humbert ero l’ultima incarnazione o parodia dell’eterno femminino stilnovista, la farfalla prima che abbia bruciate le ali eppure già in consumata confidenza con il fuoco: una smaliziata Beatrice americana grottescamente in viaggio tra strade lunghissime e fauni camaleontici e patrigni incestuosi e tremebondi, giù dentro alla nostra «epoca borghese e fracassona».



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