200 personaggi in cerca d



Il mio corpo è quello di un uccello smagrito: la lanugine grigia dei capelli, il naso a becco, la prugna secca della bocca, le mani prosciugate come artigli e cariche d’anelli, le venature azzurre delle palpebre, il ruvido gracchiare di carta vetrata della voce… Un sacco farinoso di ossa e di ricordi. Sono una nonna di centotré anni e altri secoli di storie e non ho smesso di pronosticare il passato e di ammutinarmi alla morte.
Sono stata eccessiva in tutto. Da giovane tifavo per la Western Province di rugby e nei ristoranti, alla fine di una cena, mettevo vermi dentro i piatti per non pagare il conto. Non ho mai portato un orologio al polso, ma nella mia casa di Outeniqua, in Sudafrica, ne avevo parecchi a muro: ciascuno segnava però un’ora diversa. Conservai per tutta la vita sacchi pieni dei miei assorbenti per consegnare a mia nipote, accorsa da Londra per vegliarmi, il sangue di donna versato in ogni tempo. Tutti i segreti femminili della nostra famiglia. Resistenze, travagli, sopravvivenze. La cognizione che nulla è innocente e che ogni fuga è impossibile. Che tutto nacque da una donna che si chiamava acqua e che fu stuprata, e divenne albero, e che da allora ogni donna è sempre in cerca della propria ombra perduta.
Ora so che un becchino necrofilo mi aspetta. Ma parlare con mia nipote, insegnarle che l’unica cosa su cui si può giurare è la propria fica, è il solo modo che mi è rimasto per far entrare un po’ di luce nelle stanze millenarie della mia casa ingombre di una moltitudine di nomi e di peccati e illuminare gli osceni disegni sulle pareti della cantina, e le geografie immaginarie che si diramano dai muri, e le ustioni dell’infelicità e della sopraffazione, la trama genealogica delle violenze, la lotta per la mia indipendenza e quella contro l’apartheid, e la polvere che resta di tutto.
Un labirinto di scale e di prigioni. Un ospedale avvolto da nuvole di uccelli, e dalla reticenza del tempo, e dal frullare alato della speranza.



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