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Indosso un’uniforme del Corpo Italiano di Liberazione, una vecchia uniforme inglese di colore kaki, macchiata di sangue.
Le mie sono le scarpe di un morto.
Scarpe che mi trascinano nei bassifondi di un popolo vinto, dirty and bastard, come dicono gli americani. Un popolo che fa commercio di se stesso in un’aria polverosa che sa di frittelle dolci e pesce guasto.
Sono i giorni della peste di Napoli. Lo spettacolo di un flagello più atroce della guerra. Una città senza più speranza, capace di qualsiasi vigliaccheria e di qualsiasi prostituzione. Tra feste macabre e donne livide e sfatte. Labbra dipinte, parrucche, calze, carnevalate. Vergini che si fanno toccare per un dollaro. E il prezzo della carne umana che cala al mercato nero, mentre cresce quello dello zucchero, e dell’olio, e della farina…
È un morbo che non corrompe il corpo ma l’anima. Un’epidemia portata dal nuovo esercito alleato, da cui i liberatori restano immuni. Un vento nero che lascia nere impronte. E un velo di cenere sotto l’ombra scheletrita del Vesuvio. Una discesa agli inguini della dignità nazionale. Da parte di chi ha scelto di stare sempre dalla parte sbagliata, come vuole il mio nome.
Per mostrare alla più lovely, kind and respectable delle armate of the world, ai suoi tanti tenenti Jimmy o colonnelli Jack, che la solidarietà non è un sentimento cristiano e che è una vergogna vincere la guerra.



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