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Smisi di dormire per un amore impossibile e dopo sette giorni di veglia morii verso l’alba del primo Angelus, il 9 settembre del 1825. Ero nato ventidue anni prima, nel villaggio alpino di Elschberg, senza respirare e solo il Te Deum intonato da una levatrice mi aveva rianimato.
La musica la scoprii definitivamente il giorno del mio battesimo quando mio zio, l’organista del paese, attaccò il corale. Sin dall’inizio l’universo fu per me un caleidoscopio di suoni. Di notte, dalla mia culla sentivo il rumore che fanno i fiocchi di neve quando cadono o la crosta ghiacciata che si rompeva sotto i piedi degli uomini.
A cinque anni, su una pietra piatta che emanava una strana energia, vicino al fiume, il mio udito si moltiplicò a dismisura: potevo riconoscere con chiarezza il respiro della terra, l’urlo del sangue, il canto dei delfini e delle maree, il battito del cuore di Elsbeth, mia cugina, che pulsava all’unisono col mio. I miei occhi persero il loro verde autunnale e divennero gialli come piscio di vacca; la voce, da vitrea mi si fece bassa e ci vollero molti esercizi per darle un timbro caldo. Passai due inverni senza uscire dalla mia stanza.
A dieci anni sembravo già un adulto e i contadini e i carbonai del mio villaggio si abituarono finalmente alla mia presenza.
A quattordici potevo riprodurre la voce di chiunque e leggerne il carattere. Perché non imparassi a suonare, mio zio mi nascondeva la chiave dell’organo nei reliquari, fra le ossa di san Wolfgango, nell’asta del vessillo del Sacro Cuore, ma io la ritrovavo sempre e la sera mi sedevo nel buio della chiesa. Il primo tasto che spinsi fu un fa. Dopo pochi mesi ero in grado di prendere con le mie lunghe e magre dita gli accordi più difficili e di improvvisare su qualsiasi melodia. In una sola notte, smontai le canne di faggio dell’organo per guarirlo dalla raucedine e dai danni del freddo e delle stagioni.
A diciannove anni avevo la pelle ruvida di un quarantenne e ormai conoscevo la dissonanza del peccato, il silenzio della morte, la musica mite del perdono e il presto con fuoco dell’amore. Sapevo che solo chi si rende conto che la speranza è assurda può continuare a sperare. Ma nessuno, tra le mie montagne, avrebbe potuto comprendere il mio talento, anche se un anno trionfai al cimento della musica per organo di Feldberg.
L’unico dissenso che espressi contro il mio mondo chiuso, iniquo, rustico e brutale fu solo sforzarmi di camminare a piccoli passi, con studiata eleganza. Il talento lo dissipai, insieme a ogni sensibilità, e a tutte le mie forze, nell’ostinata richiesta di un più giusto equilibrio tra pena e felicità.
Ma la natura, credetemi, è una matrigna sorda e ostile e Dio un fanciullo malvagio senza ombelico.



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