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La «dignità» è un demone curioso. Sono sicuro che ne converrete anche voi. Vi si può consacrare tutto il proprio essere e ritrovarsi irrecuperabilmente estromessi dalla vita, dal suo flusso scombinato ma reale.
È alquanto probabile che sia ciò che è capitato a me, Stevens, maggiordomo sempre all’altezza del suo ruolo, eppure condannato a non appartenere a nessuno, se non a Lord Darlington e alla sua residenza. Il mio destino è sempre stato nelle mani di quel gentiluomo e vi posso garantire che, per quello che mi riguarda, un cambio di padrone e una settimana di libertà alla fine di una irreprensibile carriera divennero un pericolo mortale. Il viaggio di un assente, mi rendo conto, inceppato dal pudore e dall’incondizionato ossequio alla forma. Il racconto di un domestico che ha disertato le principali occasioni della sua esistenza, perduto dall’incapacità di riconoscere i propri sentimenti e di dare loro voce, impegnato com’ero a misurare la distanza di un bicchiere dal bordo di un tavolo con un metro di legno. A mondare di ogni errore la mia giornata. A prevenire le difficoltà prima che insorgessero. Col risultato, vorrei aggiungere, di riempire di mancanze la vita che non ho vissuto.
Ciò che intendo è che non ebbi tempo per niente: né per l’amore, né per la morte di mio padre. Non ebbi tempo neppure di sbagliare e non sfiorai mai il segreto del calore umano, se non marginalmente.
È difficile da spiegare, ma è ora che mi eserciti a pronunciare delle battute scherzose. La «dignità», adesso lo so, non potrà mai essere gelo e astensione.



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