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Mi nascondo nelle gole delle montagne intorno alla città di Kruja, sopra la pianura dove sono accampati i Turchi. Come un fantasma a cavallo. Mi annido nel grano maturo e da lì osservo l’esercito nemico, il suo Impero di Alfabeti, le tende bianche, la nomenclatura di ogni assedio e di ogni usurpatore. Nessuno mi ha mai visto né dal campo né dalle torri, ma tutti sanno che ho trentasei anni, e parlo sette lingue, e sono di aspetto semplice, ma di parola fascinosa. Fui preso ostaggio da bambino, ed educato nella strategia militare alla corte del Sultano, finché non ne fuggii per dare l’avvio a questa guerriglia.
Il mio nome ritorna dentro e fuori le piazzaforti, tra le sentinelle, i padiglioni dei cronisti, le truppe della morte. Nella voce albanese di battesimo. O in quella islamica di Scanderbeg. Ritorna nella pece e nel sangue, come quello di un demone invisibile, di un’aquila feroce, di un leone, come la formula magica di una resistenza che solo ventiquattro spedizioni e molti pascià potranno vincere. Di giorno porto ancora in salvo nelle grotte i bambini, i vecchi e le donne; di notte scendo a ondate sulla nuvola gialla degli invasori, scagliandomi con inaudito furore contro i verbi da sempre declinati della sopraffazione, in attesa che i tamburi stranieri annuncino la stagione di tregua delle piogge.



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