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Appartenevo a una razza sanguigna e senza paura: una popolana di provincia, contadina, bottegaia, con una fiera praticaccia della vita e un corredo di proverbi per ogni occasione. Ma il mio carattere spigoloso e umorale contrastava con la rotondità delle mie fattezze, con la bocca morbida, rossa come corallo, rispecchiandosi invece nella gagliardia del seno, nella scurezza degli occhi, nei miei lunghi capelli corvini.
Il matrimonio l’avevo tollerato ma come si tollera una seccatura: qualcosa che ha più a che fare con la violenza che col rispetto. Dell’amore conoscevo solo quello per mia figlia e da vedova credevo che sarei stata felice nell’impavido dominio della mia solitudine.
Ma i tempi sgangherati che vissi mi confusero in una moltitudine universale di sfollati: gente sempre in marcia tra città e villaggi invasi dalla guerra e letti di granturco, mulattiere, damigiane sbrecciate e valigie di fibra. Un’umanità inevitabile di borsari neri, di prostitute, di lazzari perduti alla pietà, dannati a ripassare l’inutile inventario di ciò che si è lasciato.
Perché la guerra è un incrudimento di tutto, una sciancatura, un rattrappirsi d’ogni senso; e non c’è nessun peccato d’origine, solo un altare di innocenze profanate, lo stupro di una figlia, gli occhi spalancati, l’urlo inutile. Un guado doloroso prima che si torni a «questa povera cosa di oscurità e di errore» senza sapere perché sia preferibile alla morte.



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