200 personaggi in cerca d



Uno come me c’è in ogni prigione d’America. Io sono quello che vi può procurare qualsiasi cosa all’interno del braccio: sigarette, cioccolatini, spinelli, scherzi di carnevale, mutandine di donna, una bottiglia di brandy, un martelletto, una collezione di monete… se mi chiedete di farvi arrivare in cella Rita Hayworth, vi dirò che non c’è problema: in pochi giorni avrete il vostro manifesto gigante. Il mio è tutto un commercio di desideri, e di guardie da ungere, e di tempo lento. Entrai nel penitenziario di Shawshank nel 1938 per aver manomesso i freni alla Chevrolet di mia moglie… Avevo vent’anni, i capelli rossi, una valigia di rimorsi ed ero nato dalla parte sbagliata della città.
All’inizio le mura del carcere non si sopportano, poi se ne sente solo il fastidio, poi ci si abitua… Per ultimo, quando ti hanno completamente addomesticato a quella vita in scala ridotta, si finisce per amarle perché solo lì dentro si capisce come funzionano le cose. Questo è ciò che prova un prigioniero istituzionalizzato. Meglio lavorare nella lavanderia della prigione o nella fabbrica di targhe, e limitarsi a sognare di scavare gallerie ogni notte e a raccontarsi storie di evasioni leggendarie che ritrovarsi improvvisamente fuori a maneggiare una libertà sconosciuta.
Quando uscii, quarant’anni dopo, tutto correva troppo veloce e faceva paura. Ma era venuto il momento di decidere se darsi da fare a vivere o darsi da fare a morire. E io decisi. Lasciai il posto di aiuto magazziniere che avevo trovato al grande Foodway Market allo Spruce Moll di South Portland e indossai la speranza come si indossa un mantello. Così mi aveva insegnato, nella sua lunga stagione all’inferno, un altro detenuto più libero di me, che quel mantello invisibile non se lo era mai tolto.
Nessuno sa se ho mai passato la frontiera con il Messico a McNary, ma in molti giurerebbero di avermi riconosciuto in un vecchio dai capelli grigi e radi che camminava leggero nella città di Zihuatanejo, davanti a un oceano senza memoria.



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