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Prendete i versi rovinosi e sfavillanti di un poeta arabo, un sanatorio della Conca d’Oro, l’anno successivo di una guerra; riunite un gruppo di reduci dai polmoni sconciati, un medico che ama gli scacchi e gli arguti indovinelli e una ballerina ebrea dall’ambiguo passato ormai dannata a una fine precoce: ecco che avrete la struggente e incantata Montagna in cui abitai, da novizio, per qualche mese. Ma, a differenza di altri, io la vita non l’ho più abbandonata per nuovi campi di battaglia, vaccinato ormai alla sciagura e inguaribilmente ferito solo dall’amore.
Per me che ero arrivato alla Rocca con un pugno di ricordi secchi in una cassetta militare, non valse che questo doloroso apprendistato o irripetibile vacanza. In settimane corrotte da dialoghi interminabili, sotto un cielo di canicole feroci e cavallette faraoniche, imparai tutti gli accenti della morte, sino a scialare con lei quanto mi restava dell’adolescenza. Ne portai dopo e dovunque la definitiva impressione d’avere in me il seme di una peste e la memoria «di come possano essere infelici i più felici giorni di una vita».



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