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Io, Tönle Bintarn, l’inverno lo porto già nel nome. Bintarn vuol dire infatti invernata, e questo fu il tempo dei miei segreti ritorni, di stagionale Ulisse di confine per aver ferito una volta una guardia di finanza. Nel resto dell’anno ero costretto a cercare lavoro altrove, lontano dal mio altopiano e dalla mia famiglia. Venditore ambulante di stampe, boscaiolo in Carinzia, contadino in Stiria, allevatore di cavalli in Ungheria, giardiniere in un castello di Praga… a me l’impero asburgico non sembrò certo meno vasto e millenario dei mari dell’antichità.
Mi accompagnò sempre la dea della solitudine, e anche la festa del nuovo secolo dovetti celebrarla dall’alto di un nascondiglio nevoso, mentre sotto di me la gente brindava e crepitavano fuochi. Fino all’amnistia, alla vecchiaia da pastore, alle case svuotate come arnie dalla guerra. E a un ultimo viaggio, in un campo di reclusione, quando non ci furono più ciliegi selvatici sopra i tetti e una silenziosa Penelope ad aspettarmi.



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