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L’uomo il cui nome è detto resta in vita: me lo ha confidato un santone arabo che incontrai per caso all’ombra della Sfinge. Lo presi in parola. Avevo novantaquattro anni, ventiquattro banche, ventiquattro malattie e un maggiordomo provvisto di ombrello. Ed ero miliardario.
Assoldai sei persone perché dalla soffitta della mia villa pronunciassero incessantemente le tre sillabe del mio nome composto di lettere tutte diverse e distribuii in ogni angolo della casa, persino dentro il pianoforte nel salone delle feste, piccoli altoparlanti da cui poter sentire, ogni volta che lo volessi, la prodigiosa litania. Stravaganze di vecchio, si direbbe, e invece, una dopo l’altra, le mie malattie scomparvero, i capelli e i denti presero a ricrescere, i muscoli si rinnovarono, finché il mio corpo tornò a essere quello di un affascinante Dorian Gray. Lo considerai il miracolo della fama e della ripetizione. Così, dopo che sopravvissi agli agguati di un nipote, al rapimento da parte di una banda a me omonima e anche al mio stesso funerale, mi ritrovai, alla fine di questa favola a rovescio, ringiovanito di ottantuno anni, felice di avere finalmente un’altra vita davanti per coronare il mio sogno: quello di diventare un artista del circo equestre, un trapezista, un acrobata, un giocoliere…



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