200 personaggi in cerca d



Sono fatto dell’acqua del Danubio. Delle favole dei Balcani. Della paura dei lupi che avevo da bambino. Delle feste del Purim e della circoncisione. Di una cometa che passò alta e luminosa nel cielo. Degli accenti di un porto. Delle carovane degli Zinganas, gli zingari. Degli odori della butica del nonno, piena di sacchi d’avena, di riso, di lenticchie. Sono fatto di molte città. Di un puzzle della cartina geografica d’Europa che sapevo rimontare a occhi chiusi. Degli alberi in cui ho riposto sempre grandi speranze. Sono fatto dei libri che mi regalò mio padre e di quelli che mi lesse mia madre. Dei cerchi scuri della tappezzeria di una casa dove ho abitato. Di un lied che si cantava, la sera: «Das Grab auf der Heider». Delle canzoni tristi di un taglialegna armeno, il primo profugo della mia vita. Sono fatto di molte persone e di molti ricordi: il più lontano è di qualcuno che minaccia di tagliarmi la lingua perché non riveli un segreto. In un altro, inseguo io mia cugina con una scure perché mi consegni un quaderno che conteneva la cosa più affascinante che avessi mai visto: le lettere dell’alfabeto. Sono fatto di molte frasi, e molte parole, e molte lingue. Dello spagnolo in cui fui allevato con il nome di Eliachichu. Del tedesco che parlavano clandestinamente i miei genitori, che in tedesco si erano innamorati, a Wien, di un amore osteggiato come le loro aspirazioni. Dell’ebraico in cui si celebravano i riti della mia famiglia di origine sefardita. Del turco dei miei nonni, che venivano da Adrianopoli e da Stambol ed erano commercianti. Del bulgaro di Rustschuk in cui nacqui, primogenito. Dell’inglese di Manchester in cui morì mio padre leggendo sul Guardian, un anno dopo essere stato maledetto dal nonno per la sua partenza, la prima avvisaglia della grande guerra che sarebbe scoppiata.
Da allora, ogni guerra è per me un affare personale. E in tutte le lingue del mondo continuo a gridare la mia protesta contro la morte.



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